ZEBRA CROSSING. DocLisboa 2020: Signals di resistenza

L’edizione 2020 di DocLisboa si espande su sei mesi di appuntamenti tra gli spazi della città e del web. Zebra Crossing si è fatta un giro tra Signals e Body of Work, le sezioni in streaming

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DocLisboa, giunto alla sua diciottesima edizione, cambia la sua usuale formula per andare verso una presenza online e dilatare il programma molto oltre i consueti dieci giorni. Così Doclisboa 2020 diventa un festival su sei mesi, da Ottobre 2020 a Marzo 2021, periodo in cui i film delle varie sezioni potranno essere visti online, ma con ampie finestre di programmazione in presenza, in modo da poter ovviare in modo intelligente alle problematiche esterne nel caso in cui si dovessero chiudere le sale. In questo momento è infatti in corso il secondo momento del festival, Movements, dal vivo negli spazi del Culturgest di Lisbona, del Cinema Ideal e dell’Aljube Museum.

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Diviso quindi in vari momenti il festival è iniziato con la sezione Signals mostrata tra il 22 ottobre e il 1° novembre, sezione atta a mostrare un piccolo panorama di ciò che si vedrà in seguito. Nello stesso periodo si possono vedere online le sezioni laterali Body of Work (che vuole indagare su come il cinema oggi rifletta sulle dinamiche e le problematiche del lavoro) e Green Years (in cui si indaga l’infanzia e la relazione di essa col mondo degli adulti). Oltre ovviamente al film di apertura, il bellissimo Nheengatu – The Language from the Amazon Forest (su cui torneremo) del regista portoghese José Barahona (che a marzo 2021 sarà anche nella giuria della sezione Origins/Practices and Traditions in Cinema), film che ha subito dato una forte connotazione a tutto il festival.

Signals dunque.
Segnali. Segnali di vita forse? 

Chelas Nha Kau (Chelas è casa mia) è un documentario in prima mondiale creato dalla casa di produzione BagaBaga di Lisbona, insieme al collettivo Bataclan 1950. BagaBaga lavora coi giovani del famigerato quartiere Chelas per fornire loro strumenti al fine di esprimersi tramite le immagini e la musica. Non si può parlare di trama quanto di manifesto di resistenza umana lanciato via video da un quartiere da cui un tempo si scappava mentre ora si vuole provare in tutti i modi ad amare. Nonostante le feroci ronde della polizia che lasciano morti per strada (l’aneddoto di Pedro), nonostante semplici servizi non ricevuti (la potente scena solo audio e senza immagini della telefonata per una pizza che sappiamo mai verrà consegnata). Si ha veramente la netta sensazione che il cinema sia soprattutto suono. Appena iniziato lo schermo nero si riempie di parole per poi ridare immagini che comunque ridanno il rap improvvisato da due adolescenti. Un bel rap (finalmente) dalle belle basi, un rap che rende molto l’orgoglio e la resistenza di chi vive la ghettizzazione sulla propria pelle ogni giorno. 1950 è il cap di questa zona di palazzi anonimi e giardini di cemento. Il numero è esibito in ogni modo per rivendicare una propria identità, anche attraverso i gesti classici del rap, dalle danze alla grigliata nel bidone, fino a filmarsi come fa Rita che diviene lo sguardo interno privo di censure.

La pratica di far filmare gli “attori” di un documentario non è nuova ma, grazie al digitale, diventa sempre più consueta, in modo tale che la richiesta fatta dal regista Josè Barahona ad un indio all’inizio del magnifico Nheengatu non viene sentita come assurda. Notiamo subito la modernizzazione degli indigeni, tutti vestiti e tutti parlanti portoghese o spagnolo. Il problema della lingua è centrale. Il Nheengatu è l’idioma creato nel ‘600 dai missionari per uniformare le lingue di tutte le tribù con cui venivano in contatto. Se in quel tempo era lingua del potere oggi diviene lingua di resistenza. Purtroppo i giovani indio non la parlano e con difficoltà la capiscono. Viene facile pensare al rap di Chelas e alla giungla come un enorme quartiere (stavolta non di cemento). Quartiere temuto ed osteggiato per la sua pericolosità. La fotografia rende quanto dura sia la sopravvivenza. Subito pensiamo ad Herzog e a quanto sia stato maestro di sguardi per filmare l’Amazzonia. Ma oltre alla bellezza della Natura da Cinema Barahona filma (e fa filmare) anche il cinema al lavoro, creando molteplici segnali visivi che solo teoricamente potrebbero essere divisi, ma che poi la forza della necessità tende a mischiare, con il permesso del regista. Infatti non tutte le interviste sono filmate in modo professionale, e non tutti i videoselfie ridanno il momento preso al volo. Allora filmare diventa atto creativo di qualcosa di altro, che ha una sua ontologia. Come capiamo dalla ripetuta dicotomia del riflesso sulle acque fluviali. I riflessi raddoppiano l’immagine come una lingua raddoppia l’altra, senza essere la stessa cosa. Forse il Nheengatu è come la lingua del cinema digitale, che sta crescendo sempre di più per resistere alla lingua del cinema commerciale.

Body of Work come detto indaga un ambito di resistenza fondamentale di oggi: l’uomo alle prese col mondo del lavoro. 

In Le Kiosque la giovane regista Alexandra Pianelli si ritrova a gestire l’edicola di famiglia a Place Victor Hugo a Parigi, e sfrutta questa opportunità per filmarsi e filmare da dentro l’attività dell’esercizio commerciale. Rispetto ai precedenti lo sguardo è più narratorio, senza lesinare tentativi di moltiplicazione dello sguardo da dentro il processo (come quando la regista dà il cellulare all’amico per riprendere una manifestazione intorno all’edicola che lei può solo ascoltare). Se l’idea di base è semplice (tra una candid camera e Zavattini) tutto è coerente, rasentando forse il didascalismo (però si apprezzano le ricostruzioni su modellino della piazza per spiegare la crisi della stampa) ma raggiungendo squarci di reale ogni volta che cattura lo sguardo di qualche ignaro avventore, ogni volta che si fa complice dei clienti più affezionati. Fino a levitare verso una fine del documentario che è anche la fine della vita dell’edicola, portata via nella notte davanti agli occhi della madre, finalmente libera dal lavoro ma spaventata da tanta libertà. Allora Le Kiosque si trasforma nella cronaca di una eutanasia lenta e assistita.

Coprodotto dalla Università di Cinema e Televisione di Monaco e dalla Fondazione di Edgar Reitz Automotive di Jonas Heldt non vuole parlare della fine del lavoro ma del processo interno al lavoro. Un processo che non ha mai fine, quanto invece possono avere fine (e inizio) le carriere di chi sta in esso. Dei vari personaggi seguiti, in modo molto geometrico che rende bene la automazione del processo, Seda è colei che sulla propria pelle subisce le dinamiche lavorative odierne. Grazie ad una agenzia ha trovato lavoro presso lo stabilimento Audi per i pezzi da assemblare ad Ingolstadt, ed è felice della sua condizione. Poi la crisi del mercato  automobilistico e un processo subito da Audi fanno sì che l’agenzia debba interromperle il contratto a tempo e Seda entra in una fase di transizione in cui si interroga se uscire da quel mondo o rientrarci in altro modo. Se è vero che “non si scappa dalla/alla macchina” Automotive indaga proprio come la catena venga cercata, amata, rispettata da chi ne ha a che fare. Lo sguardo apparentemente freddo rende bene i dubbi che talvolta emergono da quell’attimo in più dato ad un silenzio, come fosse un’ombra, una domanda esistenziale sulla ragione della propria vita. Dubbio che tocca sia la giovane operaia Seda che la bella cacciatrice di teste Eva, la quale ammette come non abbia mai pensato al lavoro come riflesso della vita ma solo come modo per mantenersi. Se l’ordine geometrico della catena è continuo, se l’automazione porta alla riduzione del personale come nello stabilimento Audi in Ungheria, allora la resistenza umana sta nel dubbio con cui lo sguardo interroga il processo.

Stesse conclusioni possiamo vederle nel breve ma intenso Under the North Sea di Federico Barni e Alberto Allica, i quali si calano letteralmente nei panni dei minatori e dei ricercatori che 1km sotto la costa dello Yorkshire settentrionale cercano il sale e il “silenzio” per meglio studiare il segnale della materia oscura. Il fuoco del discorso è letteralmente invisibile. Da qui l’intelligente lavoro di quadri stretti a rendere la sensazione di spazi stretti e concentrazione mentale. Fino alla finale apertura verso l’orizzonte, come capacità dell’uomo di riflettere sul cosmo.

L’anima profonda di DocLisboa sentiamo sia agitata insomma da una profonda ricerca antropologica riguardo questo strano animale chiamato Uomo. Ricerca soprattutto incentrata sulle varie forme di resistenza che l’uomo attua per non venire schiacciato dalla società che egli stesso contribuisce a creare.

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