ZEBRA CROSSING. Milano Design Week 2022

Il Salone del Mobile torna dopo due anni di lotta contro la pandemia nella sua veste abituale. Zebra Crossing si è fatta un giro tra Rho e il Fuorisalone sparso per Milano

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Dopo il diversivo del Supersalone il Salone del Mobile è tornato nella sua mise abituale durante la seconda settimana di giugno.
Presenti, perché anno pari, Eurocucine e Salone del Bagno (al fianco degli annuali Salone Internazionale del Mobile, Complementi d’Arredo, Workplace 3.0 e Satellite) l’evento ha attirato numeri importanti (come conferma il sindaco Sala) che servono per rilanciare sé stesso, Milano e il design in generale dopo la pandemia. Bisognava far sentire la propria voce ai competitor mondiali (soprattutto a Colonia) e chiarire la salute del Salone dopo aver doppiato i 60 anni.

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Oltre agli attori principali in prima linea nel lavoro concreto del Salone (produttori, compratori, venditori, designer etc) la robusta presenza di media e pubblico può godere della visione dei prodotti, e non è un caso che appunto l’articolo di Deyan Sudjic su Domus si chieda giustamente se abbia ancora senso un simile dispendio di energie (letteralmente) quando poi – per esempio – si parla di sostenibilità.
Sudjic sottilmente allude anche ad un futuro in cui una fiera possa essere sostituita dall’e-commerce, e questo subito ci porta ad uno dei nodi: l’instagrammabilità.
Moltissimi turisti del design vengono a Milano per una settimana in cui fotografano e postano tutto ciò che vedono, al di là del senso di questa azione.
Ma una volta finita la festa e scomparse le storie cosa resta di Salone e Fuorisalone?

Sicuramente la domanda vede una contraddizione in sé, una contraddizione tra componenti di arredo e strutture fisiche da una parte (strutture che fisicamente – appunto – tendono a permanere) e l’evanescenza digitale (quindi al quadrato) delle loro immagini dall’altra.
Se è vero che una fiera di per sé è una parentesi effimera, una fiera del mobile in effetti si pone quasi in un punto di incrinatura di senso. Diventa allora molto probabile che il futuro vedrà il Salone del Mobile mostrarsi principalmente nel metaverso, in modi oggi difficili da pensare ma del tutto plausibili filosoficamente. Come diventa palese il fatto che le immagini del Salone e del Fuorisalone abbiano quasi più importanza (se non consistenza) degli oggetti reali che esse mostrano.

Per questo motivo parlare di questi due eventi oggi vuol dire non tanto cercare una quadra dal punto di vista del tutto (per esempio provare a vedere la sostenibilità come tema centrale di questa Milano design week) ma soffermarsi su particolari eventi/fenomeni/installazioni/oggetti che, in modo quasi casuale, il pellegrinare dentro il tempo e lo spazio di tale settimana ci porta.

La prima realtà che ci torna in mente è l’hub creativo belga Zaventem a Baranzate.
Lionel Jadot, amico personale della famiglia Necchi, ha chiesto e ottenuto di prendere in affitto per un tempo limitato i capannoni dismessi di Baranzate, luogo che per Milano significa lontanissima e inospitale periferia, famosa solo per il numero di residenti extracomunitari.
Creando quindi una nuova TAZ Jadot ha creato un luogo espositivo come quello già aperto a Bruxelles, un luogo che ci è parso subito di stampo tipicamente anni 90 (con il loro bell’immaginario postindustriale fatto di techno e rave parties).
L’idea ha vinto per molti motivi: intanto le 16 realtà artistiche portate (singole o collettive) hanno tutti mostrato opere interessanti (alcune decisamente belle).
Non siamo magari rimasti sconvolti come dopo lo storico arrivo a Milano del design olandese, ma i lavori restano comunque impressi, vuoi anche per l’ambientazione.
Infatti lo spazio è un concetto di design di per sé; scarno ma potente si presta molto alla nostalgia di feste lontane nel tempo, e difatti il party “Je t’aime” del mercoledì è stata epicentro di un momento in cui la periferia finalmente è tornata prepotentemente a colpire lo spesso asfittico immaginario collettivo milanese.
Il tutto per poi sparire in un batter d’occhio proprio come all’epoca.

Questo ci dice che in un confronto con le usuali realtà milanesi queste purtroppo ne sono uscite male. Abbiamo infatti sentito la pesantezza del rito che si ripete uguale a sé stesso ma svuotato della propria forza. Molto vicino al dover esserci per forza quando è chiaro che non si vuole.

Stessa sensazione di pesantezza percepita al Salone di Rho.
A Rho il nostro interesse ha seguito alcune linee precise: per esempio l’uso dell’intelligenza artificiale nella domotica.
Ma non siamo stati fortunati, dato che se tale AI è già presente come possibilità, non sembra ancora venire sfruttata a dovere. Soprattutto nei due luoghi in cui arredamento e tecnologia si intrecciano maggiormente (cioè cucina e bagno).

Scriviamo “sembra” perché abbiamo avuto anche la sensazione di un nascondimento strategico… Una volontà da parte dei brand di nascondere le carte (aka “le nuove idee”) per vedere dove tira il vento.
Come se sapessero che questa 60esima edizione non è un vero rilancio postpandemico ma una panacea dopo due anni di sofferenza acuta.
Panacea che però non può cancellare la pesantissima ombra di una crisi economia e politica di portata planetaria che galoppa sempre più velocemente verso il nostro presente.

Spunti interessanti da Rho quindi pochi. Molti brand storici si rifugiano in allestimenti creati sulle linee recenti. Gli asiatici quasi non si presentano. L’uso della tecnologia latita sia in cucina che in bagno. Segnaliamo per la prima solo Siemens e Scavolini, capaci di usare in modo interessante la propria app di controllo, e per il secondo solo Geberit che veramente innova il rapporto tra utente e sanitari.

Se la tecnologia c’è ma non si usa sembra proprio che si stia rimandando un salto per capire cosa succederà da qui a poco.
In assenza di prospettiva torna quindi ad essere centrale l’effimero del Fuorisalone.

Oltre l’exploit di Zaventem a Baranzate abbiamo visto per esempio la riconferma di Alcova presso l’ospedale di Baggio.
Una riconferma come idea di allestimento, al di là della qualità di tutti i molti presenti.
Valentina Ciuffi (già fondatrice dello Studio Vedèt) e Joseph Grima (già fondatore dello Space Caviar) sono sempre capacissimi di creare un immaginario (di stampo felliniano ci viene da dire) con cui riempiono la struttura prescelta di molteplici piccole interessanti realtà, le quali in tutti i modi provano a impressionare.
Alcova allora diventa un piccolo festival di “postcinema” indipendente dentro il Fuorisalone.
Festival di cui vogliamo segnalare alcune “visioni” non perfette ma interessanti: pensiamo ad “Unproduced” di Maximilian Marchesani coi suoi rami innestati di luce; “The Garden” della giovane Sam Klemick da Los Angeles per lo studio Otherside Objects che lavora con materiale riciclato per creare poltrone da giardino dalle forme “marienbadiane”; “Silentscape” dell’azienda Slalom di Arcore che fa un interessante lavoro su materiali fonoassorbenti per eliminare il riverbero dagli ambienti; “Venus in Lycra” dello studio Servomuto in cui le colorate lampade rendono ancora più chiaro il legame col cinema omaggiando il Polanski di “Venus in furs”; e infine “An Untold Story” della designer iraniana Shirin Ehya per House of Touran in cui si ragiona sul passato proiettandolo nell’Iran di oggi attraverso l’uso di piccoli oggetti di design.
Tutti percorsi narrativi con una propria idea e una propria storia.
Forse manca il colpo clamoroso ma tutti si stagliano tra la folla, e si sposano con il concetto forte di design portato avanti da Alcova.

La sensazione alla fine degli usuali 25mila passi al giorno per una settimana (il caldo di giugno non ha aiutato e infatti si tornerà ad aprile nel 2023) è quella di una potente voglia di buttarsi dietro la crisi senza però avere il coraggio di non badare ai tempi grami che stiamo vivendo e che forse vivremo poi.

Sappiamo che la sostenibilità passa anche per il riadattamento di spazi solitamente adibiti ad altro, ed esempi ne abbiamo avuti durante il Fuorisalone: oltre ai citati Alcova e Zaventem ci viene in mente il caveau usato da Pulpo, o la chiesa sconsacrata usata da Takt Project. Se però si usano crismi fantascientifici, quasi medici, per presentare una sedia in legno (con un raggelante retroeffetto comico stile pubblicità della Telefunken) allora il meccanismo forse appare inceppato. Dal Covid dovevamo uscirne migliori ma si stenta ancora ad abbandonare i vizi tradizionali.

Ci sono però, ed è necessario dirlo, piccole realtà ancora pienamente concentrate sui materiali per scoprire nuove linee. Pensiamo alla panchina in sughero dello Studio Corkinho, ma soprattutto alla eccezionale scommessa vinta dal collettivo di base casertana Keep Life, che riesce, grazie alla illuminata sinergia con il Quasar Institute, ad attirare il talento di eroi del design attuale come Matali Crasset, Marta Laudani o lo Studio Irvine, i quali sono invitati a creare oggetti usando appunto il “KeepLife”. Cioè un materiale progettato e brevettato nel 2017, composito a natura lignea e creato con gli scarti di nocciole, castagne, noci, mandorle, pistacchi e arachidi.

Se grazie a progetti come KeepLife la speranza per un futuro veramente sostenibile non vuole spegnersi il problema è che l’immagine della Milano Design Week premia ancora una lavastoviglie trasparente, che spopola nei video in rete. Magari il successo di questa immagine ci dice proprio che il futuro non vorrà la materia ma l’effetto audiovisivo. Verso la vendita di immagini di mobili e non di mobili veri. Tutto in modo sostenibile.

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