Zeroville, di James Franco

Vikar è uno dei personaggi più autobiografici di James Franco, s-monta ancora l’adorato cinema classico nella “discontinuità” disperata e avanguardista dei suoi sogni. Dal romanzo di Steve Erickson

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In terms of continuity it’s all fucked up!” – Dotty Langer a Vikar

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La più famosa sequenza di Un posto al sole di George Stevens torna in sala montaggio. Montgomery Clift e Liz Taylor ballano ancora insieme: lui dice di amarla ma di non poter rivelare il suo segreto; lei lo spinge a confidarsi muovendo verso il balcone della villa, mentre l’inquadratura stringe sul loro primissimo piano e su quel leggendario bacio appassionato. Stop alla moviola. La veterana montatrice Dotty chiede ora al suo allievo/cinefilo Vikar: “cosa deve fare un montatore?”. Lui, con la timidezza di uno studente al primo giorno di scuola, risponde: “Deve mettere le sequenze in ordine perché vengono girate in disordine”. Dotty, allora, gli impartisce una magnifica lezione di montaggio: “L’ordine prima di tutto, certo, ma poi c’è molto altro!”. Perché “nella scena più sexy della storia del cinema” la carica erotica dei due attori era talmente forte da far passare in secondo piano la continuità visiva e i raccordi di sguardo – caposaldo del découpage classico -, ma nessuno se ne è mai accorto. In quella sequenza – citata dallo stesso Godard nelle Historie(s) du Cinéma – ci sono pertanto i germi della discontinuità emotiva delle persone che intacca la continuità visiva del sogno hollywoodiano. Ci sono i germi della New Hollywood, insomma, e di tutte le sperimentazioni linguistiche che sarebbero esplose quindici anni dopo in una delle più celebrate stagioni di cinema americano.

Riavvolgiamo anche noi il rullo, riportiamolo all’inizio. Il viaggio personale nella storia del cinema firmato dal James Franco regista – dopo la gioventù bruciata di Sal, i fantasmi friedkiniani di Interior. Leather Bar., le tracce della Nouvelle Vague in The Pretenders e il B-Movies anni ’90 di The Disaster Artist – viene portato avanti con filologica cura nell’adattamento del romanzo di culto di Steve Erickson. Zeroville, appunto. Film dalle travagliate vicende produttive che solo dopo quattro lunghi anni di blocco ha trovato la luce della sala (o di quel che ne rimane). Iniziamo: James Franco entra in scena e si inquadra come Scorsese ha già inquadrato De Niro in Taxi Driver, certo, ma l’ossessione evidente qui non è tanto il “cinema”, quanto il “film” in senso letterale. Quindi la pellicola, la possibilità di toccare le immagini, di riplasmare la materia dei sogni per trovare tracce tangibili di vita. Vikar vuole trovare una serie di fotogrammi misteriosi all’interno dei capolavori della storia del cinema – in una sorta di Under the Silver Lake ancora più estremo nella ricerca dei codici nascosti nei prodotti culturali – giustificando in tal modo la fatale fascinazione per la bellissima Soledad (Megan Fox) con-fusa con i fantasmi di Ingrid Bergman o Renée Falconetti.

Ambientazione: Luglio 1969, Hollywood. Negli stessi giorni del C’era una volta firmato da Tarantino, Vikar arriva a Los Angeles e viene interrogato come uno dei tanti sospettati del brutale massacro di Cielo Drive. In quelle stesse strade dove Cliff Booth e Rick Dalton passano da un set all’altro, Vikar inzia a cercare lavoro nella fabbrica dei sogni in disfacimento. Da magazziniere nel reparto scenografia trova ben presto la vocazione nel montaggio conoscendo Dotty (personaggio che porta addosso i segni di figure mitiche come Dorothy Spencer o Dede Allen). Ed eccoci al punto: Franco, a differenza di Tarantino, non ha mai l’ambizione di riscrivere l’immaginario di quegli anni restituendocelo come visionaria memoria personale, ma vuole semplicemente continuare a serigrafare immagini altrui per cercare singoli scarti di sentimento ancora possibili. La scena del bacio di Un posto al sole tatuata in testa, del resto, è una scopertissima metafora del cinema diventato “carne”. Materia.

Ecco che i montaggi sconnessi di Vikar affastellano tempi e spazi lontani, con frammenti di aneddotica cinefila in cui vediamo Spielberg parlare de Lo squalo, Paul Schrader di Taxi Driver o George Lucas di Star Wars… per poi trovarci nello stacco successivo sul set di Apocalypse Now (dove il sublime Caronte/John Milius di Seth Rogen ci guida nei gironi dell’inferno coppoliano), oppure ancora a Venezia in Sala Grande dove il direttore della Mostra Alberto Barbera premia uno stralunato Vikar. Un cortocircuito autobiografico di letterale sincerità.

Ci risiamo: prendere o lasciare. James Franco non ha paura di apparire spudorato e si permette di montare in rapidissima rassegna umori di Stevens e Brakhage, Scorsese e Hitchcock, Wilder e Godard, Dreyer e Coppola… perché “i film esistono da prima di essere fatti”, teorizza Vikar. Evidentemente uno dei personaggi più autobiografici di Franco che vive per s-montare l’adorato cinema classico nella discontinuità avanguardista dei suoi sogni. Tutto così scoperto, certo… tutto così superficiale e art-house, certo. Del resto è questo il rischio calcolato in simili operazioni. Resta però il fatto che si continua ad avvertire una commovente urgenza istintiva e personale nel cinema di James Franco, come se raccontando se stesso immerso nelle immagini che lo hanno affascinato (e salvato…) stesse raccontando di tutti noi, oggi, rinchiusi nelle nostre quarantene a inseguire stracci di un futuro possibile nelle ossessive revisioni dei “film” che abbiamo tanto amato.

I film ti hanno salvato, vero?
Mi sembra di conoscerti da tanto tempo…

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.9

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.9 (10 voti)
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