BERLINALE 60 – "Na putu" (On the path), di Jasmila Zbanic (Concorso)

Na putu (On the path), di Jasmila Zbanic

Il punto di vista della protagonista, cui si sembra sovrapporsi quello della Zbanic, e’ rappresentato dalla sua piccola ossessione per la videocamera del suo cellulare: Luna guarda la sua vicenda personale come attraverso un’immagine. Impietosa e precisa da un lato, irrimediabilmente un filtro dall’altro

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Na putu (On the path), di Jasmila ZbanicNon e’ potente come l’esordio Il segreto di Esma (Orso d’oro nel 2006) questo secondo film della regista bosniaca. Ma il suo talento lucidissimo, fatto di umanita’ e consapevolezza, emerge con forza anche in Na putu, sguardo sull’impatto delle diverse declinazioni della fede su una coppia che vive a Sarajevo. Luna e’ una hostess e ama alla follia il suo compagno, Amar: il suo alcolismo e la conseguente sospensione dal lavoro non sembrano intaccare la passione e la dedizione della donna. Finche’ Amar non viene cooptato da un vecchio compagno di guerra, che procurandogli un nuovo lavoro lo introduce in una comunita’ integralista. Luna e Amar sono entrambi musulmani, ma di scarsissima osservanza e pratica. Ma, in poco tempo, l’uomo rivede ogni dimensione della sua vita, arrivando a chiedere a Luna – con cui convive – di smetterla con il sesso extramatrimoniale. Dopotutto, e’ forse proprio per questo che lei non riesce a restare incinta.
Per la Zbanic la musica popolare e’ sempre volano dell’empatia e della (ri)unione, come la canzone “Sarajevo Ljubavi Moja” chiudeva e infondeva il senso piu’ profondo alla sua opera prima (di cui ritroviamo qui anche la protagonista, Mirjana Karanovic). Qui pero’ diventa anche il punto in cui esplode il conflitto, durante una ricorrenza religiosa festeggiata a casa della nonna di Luna. Prima e dopo, il punto di vista della protagonista (cui si sembra sovrapporsi quello della Zbanic) e’ rappresentato dalla sua piccola ossessione per la videocamera del suo cellulare: Luna guarda lo scenario e la sua vicenda personale come attraverso un’immagine. E l’immagine e’ impietosa e precisa da un lato, irrimediabilmente un filtro dall’altro. Lo sguardo di Luna e’ oggettivo nel suo distacco: sulla debolezza di Amar (l’alcol e gli ingombranti residui psicologici della guerra) fa presa facile la versione estrema della religione musulmana, che gli offre squadrate vie comportamentali e incontestabili certezze. Non stupirebbe se qualcuno, magari un po’ miope, accusasse Na putu di razzismo nei confronti dell’Islam: Luna cerca onestamente di esplorarlo ma finisce per rifiutarlo in blocco, dagli abiti alla bigamia, e la (ogni) religione emerge come un insieme di (false) credenze figlie piu’ di mancanze che di ricerca spirituale. Tra i due estremi rappresentati dai personaggi di Luna e Amar la regista riesce pero’ sempre, sensibilmente, a creare sfumature e a insinuare dubbi, lasciando finale e giudizio aperti. Sullo sfondo di una ferita ancora e costantemente aperta – come in Il segreto di Esma, la guerra – Na putu offre allo spettatore momenti carichi, come la visita di Luna alla nonna, in cui vive il meglio della continuita’ e della solidarieta’ generazionale, e come il ritorno della protagonista alla casa che il conflitto le ha sottratto. Il dolore e la frustrazione di un oblìo impossibile si contrappongono allora all’innocenza, all’inconsapevolezza sul volto della bambina che ora vive in quella stessa casa.
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