CANNES 63 – "Route Irish", di Ken Loach (Concorso)

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Dopo il lampo di Il mio amico Eric, il regista inglese mostra una perdita d'intensità che attanaglia già da tempo il suo cinema. Qui, teso a seguire la scrittura di Laverty, si rifugia dentro improbabili trame thriller e in confessioni video sul PC che appaiono quasi come la parodia di Redacted. Forse il cineasta vorrebbe ancora indignarsi ma non sembra averne più la forza. In concorso a Cannes 63

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route irishUltimamente Ken Loach fa un passo avanti e tre indietro. Pur nei suoi limiti, eravamo rimasti positivamente colpiti da Il mio amico Eric, ma stavolta, con Route Irish, le debolezze di un cinema non più arrabbiato ma appiattito emergono a galla. Gran parte del film sta tutto nella scrittura di Paul Laverty cher addensa situazioni passate e un intrigo che già in fase di sceneggiatura fa fatica a sciogliersi. Nel settembre del 2004 Fergus convince il suo amico d'infanzia Frank a far parte della sua squadra di agenti segreti di sicurezza, a Bagdad, per un salario mensile non indifferente. Nel settembre del 2007 Frank muore sulla 'Route Irish', la strada più pericolosa della città irachena che collega l'aeroporto con la 'Green Zone'. Fergus rifiuta la versione ufficiale, ritorna a Liverpool e inizia ad indagare sulle cause della morte dell'amico. Forse visivamente l'unica intuizione del film di Loach è il modo in cui cerca di far rivivere la figura di Frank. All'inizio l'amico apre la bara, poi viene rotto il vaso delle ceneri. In apertura si vede anche un'immagine di repertorio che caratterizza l'amicizia tra i due protagonisti che è di lunga data e si sente la sua voce nella segreteria di Fergus. Per il resto Loach, anche rispetto ai suoi film non riusciti, mostra di avere il passo pesante per seguire improbabile trame thriller con drammatiche confessioni in video sul PC che appaiono, involontariamente, quasi la parodia di Redacted. Non si discutono ovviamente né le intenzioni né il modo in cui il regista senta il problema e lo voglia raccontare. Il problema è come lo fa. Presenta tutte figure a metà tra sensi di colpa e in preda di una crisi di nervi, facendole urlare ma lasciandole lì, ferme, dentro un'inquadratura che appare come una trappola. Fergus era potenzialmente anche potente, con un dolore addosso che doveva trovare uno sfogo. Lo sguardo di Loach disperde tutto questo e ciò è evidente nella scena della tortura che appare troppo insistita e quindi perde d'efficacia o in quegli attraversamenti su Bagdad che è l'esempio emblematico di un cinema che guarda stancamente quello che ha intorno, che forse vorrebbe ancora indignarsi ma non ne ha più la forza. Però – sembra voler dire il film – il tema va comunque trattato. Se si deve fare in questa maniera, è meglio lasciar perdere.   

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    Un commento

    • Ormai è un'abitudine consolidata dei critici storcere il naso di fronte al cinemadi Ken Loach ai festival per poi ritornare sui propri passi all'uscita nelle sale. A memoria solo My name is Joe, Sweet sixteen sono stati umanimamente amati fin da subito. Gli altri in primis Il vento che accarezza l'erba fino al bellissimo In questo mondo libero chissà perchè non sono stati apprezzati a dovere…fortuna proprio quella palma annunaciata da Wong Kar Wai nel 2006 lo ha finalmente posto trai i grandi del cinema.