TORINO 25 – "Irina Palm", di Sam Garbarski (Anteprime)

Il marchio della povertà: l’arenaria rossa, le red lights. Irina Palm si riavvolge continuamente su se stesso nel ciclo della produzione, ha il pregio di fermarsi all’impalpabilità dei sentimenti. Nessuna deviazione, nessuna fuoriuscita emotiva in questo film a tratti divertente, mai votato alla riflessione, sempre diligente sui binari di una narrazione programmata
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Il marchio della povertà: l’arenaria rossa, le red lights. Maggie, al secolo Marianne Faithfull (Intimacy, Marie Antoinette), è una donna che vive in un piccolo centro nei pressi di Londra. Il suo nipotino è seriamente malato, e né lei, né suo figlio (Kevin Bishop), né la moglie di questo (Siobhan Hewlett) hanno i soldi per pagare un viaggio della speranza in Australia. Provincia terribile, soffocante di personaggi ed empori; vite che sembrano esclusivamente sospese nell’attesa che qualcosa accada. E qualcosa accade, quando Maggie prende il coraggio, e il treno, verso la capitale. Cerca un lavoro, e le agenzie di collocamento sono pronte a dirle che non c’è un bel niente per una signora di mezza età che mai niente ha fatto nella vita. E’ allora che le si apre inconsapevolmente una ben strana opportunità. Irina Palm si riavvolge continuamente su se stesso nel ciclo della produzione, settimana dopo settimana, stipendio dopo stipendio, automatismo dopo automatismo, avanzamenti di carriera inclusi. Tutti gli ingranaggi funzionano alla perfezione in questa Metropolis della masturbazione compulsiva che sforna concorrenza tra colleghe, disturbi fisici legati alla meccanica dei movimenti, flirt sul luogo di lavoro. Con una fotografia sgranata che sembra ispirata ai lavoratori urbani di Ken Loach, Sam Garbarski ha il pregio di fermarsi all’impalpabilità dei sentimenti. Quelli che vivono in ogni essere umano, ma che le situazioni, le gerarchie, i limiti del reale quotidianamente mettono a tacere. Così tutto passa dalle inferenze dello spettatore – la rivalità e la solidarietà tra donne, il dolore morboso di un figlio maschio, la silenziosa e miracolosa consapevolezza di un bambino che passa la vita in un letto d’ospedale, infine l’amore tra due mondi che mai avrebbero potuto o dovuto incontrarsi (bella l’interpretazione di Miki Manojlovic, già attore in Papà…è in viaggio d’affari, Gatto nero gatto bianco, Underground). Così il regista tiene tutti i suoi personaggi, e soprattutto la protagonista, costantemente a distanza, quasi a non permettersi di entrare nell’intimo, per una condivisa e normalmente accettata interdizione. Nessuna deviazione, nessuna fuoriuscita emotiva in questo film a tratti divertente (la scena in cui Maggie/Irina ‘confessa’ sadicamente il suo segreto alle compagne di bridge), mai votato alla riflessione sociale o psicologica, sempre diligente sui binari di una narrazione programmata.
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