TORINO 28 – “Lucky Life”, di Lee Isaac Chung (Onde)

lucky life
Ogni anno quattro amici newyorkesi  lasciano la città per trascorrere qualche giorno di tranquillità al mare. Ma stavolta l’atmosfera distesa di quelle giornate sembra svanita inesorabilmente. Il regista di origini coreane gira un’opera di rara intensità visiva e narrativa, riuscendo nel capolavoro di fondere l’anima orientale dai ritmi compassati e più rarefatti con il flusso immaginifico del cinema indipendente statunitense per una sorta di spazialità assoluta che si offre come immagine di uno spazio infinito e chiuso al tempo stesso
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lucky lifeOgni anno quattro amici newyorkesi, tra cui i neosposi Mark e Karen, lasciano la città per trascorrere qualche giorno di tranquillità al mare. Ma stavolta l’atmosfera distesa di quelle giornate insieme deve scontrarsi con la novità del cancro terminale diagnosticato a Jason. Tutti fanno il possibile perché il loro rapporto sia più forte della frustrazione generata dalla malattia e la vacanza rappresenti il suo sereno commiato. Qualche tempo dopo, durante l’attesa del primo figlio di Karen e Mark, il ricordo di Jason ritorna a palesarsi. Il regista : “Samuel Anderson e io abbiamo scritto e lavorato al film in un momento in cui stavamo affrontando entrambi drammi personali. Mi sono quindi rifugiato nella poesia, e in particolare nella lettura della raccolta più famosa di Gerald Stern, “Lucky Life” (1977), che dà infatti il titolo al film. Lo stesso Stern è un collezionista di epifanie, uno scavatore di ricordi e di piccoli episodi quotidiani che gli altri abbandonerebbero; redime ciò che è stato perso per essere dimenticato e ci riporta alle sacre parole “Vita fortunata, vita fortunata”. Il regista di origini coreane gira un’opera di rara intensità visiva e narrativa, riuscendo nel capolavoro di fondere l’anima orientale dai ritmi compassati e più rarefatti con il flusso immaginifico del cinema indipendente statunitense per una sorta di spazialità assoluta che si offre come immagine di uno spazio infinito e chiuso al tempo stesso. Un “grande freddo” sospeso sul tempo interiore e cantato sul corpo morto della vita: dedicato a una generazione che non attende più il futuro e lotta con i vuoti lasciati dall’incessante movimento del tempo, dai silenzi ricoperti di fragorosi rumori della quotidianità, luci improvvise e ingannatrici, tagli e dissolvenze crudeli ma leggiadri che segnano il sopraggiungere delle onde, pronte a ricoprire ogni grido di dolore (e di passione).  Nel regista c’è qualcosa di “insopportabile, coraggioso e bello” ed è un qualcosa di incessante, impalpabile. Una forza titanica che non è racchiusa in una parola ma nella carica ancestrale del linguaggio visivo.  
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