Anhell69, di Theo Montoya

Potente canto funebre, è davvero l’unico modo per raccontare la comunità queer: non dare formadefinita al racconto, liberarsi dei confini del genere. Settimana della Critica

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Anhell69 si svolge a Medellín, capitale del dipartimento di Antioquia, Colombia. Una città più che densamente popolata, per la precisione il secondo agglomerato urbano in Colombia, dopo Bogotà, in termini di popolazione ed economia. Medellín è inoltre un importante centro industriale, soprattutto per quel che riguarda l’industria tessile. La città dunque è abbracciata dalle fabbriche ed è “una città di madri” dice Montoya in voice over. Sì, perché moltissimi ragazzi e ragazze della città sono stati cresciuti solo dalle madri, laddove i padri, per motivi più disparati, spesso e volentieri non ci sono mai stati. Forse anche questa rete femminile ha fatto sì che Montoya avesse una comunità queer così ampia.

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La trama del film è piuttosto semplice: il regista ci racconta il suo passato a Medellín, città violenta, spiega: “Si muore di eroina, di suicidio, di omicidi nella rete dei narcos o a sfondo omofobico”. Al centro poi c’è il suo amore per il cinema, vera fonte di salvezza. Ricorda così la preparazione del suo primo film, un B-movie sui fantasmi, dove i vivi possono fare l’amore coi morti, e questo non piace alla società. La giovane comunità queer viene scritturata per il film, ma il protagonista scelto, Angel, muore per overdose di eroina a 21 anni, così come molti amici del regista stesso.

Ora, se definire una trama a parole è semplice, non lo è invece  definire il genere, la forma di Anhell69 di Theo Montoya, vera promessa del cinema. L’opera del regista è infatti impossibile da determinare, è fluida, per usare un termine centrale oggi. Un film che varca i confini ed è molteplici cose insieme: documentario, fiction, intreccio di narrazioni autobiografiche indissolubilmente legate a quelle di una finzione quasi fantascientifica, al limite dell’orrorifico. E forse questo è davvero l’unico modo possibile per raccontare la comunità queer: non dare una forma definita al racconto, liberarsi dei confini del genere, lasciare che i minuti scorrano liberi da un qualsivoglia contenitore. È una forma di libertà per l’appunto, raccontare con il cinema una comunità che abbatte i confini, e con il cinema in questo modo salvarsi dall’odio esterno e dalla morte violenta. E questo film dalla forma-non-forma è come un omaggio, perché per molti versi è anche un canto funebre, una dedica ai morti di Montoya ma anche a chi tutt’oggi vive le strade violente e conservatrici della città di Madellìn. D’altronde Anhell69 si apre con un carro funebre che vaga nella notte illuminata. E forse a colpirci di più è la luce nel film di Montoya, che ci si rivela decisa: dal buio delle notti nei locali, alle lampade accese in sede di provini. I colori sono luminosi e al contempo come marcescenti. Un po’ come quelli di certi quadri di Frida Kahlo: indefinibili anch’essi, nell’esser insieme spenti e incredibilmente vividi.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
3 (3 voti)
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