Aus meiner haut (Skin Deep). Intervista a Alex e Dimitrij Schaad

Il film vincitore del Queer Lion di Venezia 79 è uno sci-fi filosofico che vuole ragionare anche di narrazione per immagini nella nostra epoca. Ne abbiamo parlato con il regista e lo sceneggiatore

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La sequenza cruciale di Aus meiner haut (Skin Deep) di Alex Schaad è un confronto all’interno della coppia protagonista, Tristan e Leyla. Lei sta male, da tempo ormai, talmente male da essere arrivata ad odiare il proprio corpo, e da pensare che una soluzione possa essere usufruire dei “servizi” di una misteriosa isola che permette di traslocare letteralmente la propria anima nel corpo di chiunque altro, e viceversa, in maniera reversibile. Tristan ne ha abbastanza quasi subito della gita, e vorrebbe tornare a casa, ed è allora che lei sbotta: “davvero non ti sei accorto di quanto stessi male, per tutto questo tempo? Come hai potuto pensare che fosse solo una fase passeggera?”
Ecco, non sempre è facile capire come sta la persona che ci vive affianco, anche quando ci passiamo insieme tutte le giornate, anche quando pensiamo di essere persone empatiche, attente, proiettate sull’altro. “È una sequenza a cui teniamo particolarmente”, ci ha raccontato il regista Alex Schaad a Venezia. “L’abbiamo provata e riscritta per mesi. Se quella scena non avesse funzionato, sarebbe crollato l’intero film. Esplicita la domanda fondamentale della storia: quanto in profondità pensi di poter conoscere una persona senza poter davvero essere quella persona?”

Il film è una parabola sci-fi non troppo dissimile nei toni dal Lobster di Lanthimos, che tiene insieme una struttura di genere (l’isola degli esperimenti da cui è impossibile fuggire, il guru carismatico ecc) con riferimenti più “alti” (la sequenza iniziale, con musica sacra e una camera da letto antica dove un anziano sembra vedere se stesso morto da ragazzino sotto le coperte, ricorda l’atto finale di Odissea nello spazio). La giravolta dei trasferimenti di corpo tende al parossismo, ad un certo punto Leyla, una ragazza di 25 anni, finisce per ritrovare se stessa nel corpo di un uomo di più di 40. “Ma è solo attraverso questo trasformarsi in qualcuno di così evidentemente diverso che finalmente riesce a parlare con Tristan, ad affrontare paure e conflitti, a chiarirsi”, ci spiega il co-sceneggiatore e attore del film, Dimitrij Schaad. “Abbiamo scritto tutte le storie dei personaggi sull’isola, e deciso solo alla fine quali sarebbero stati i quattro protagonisti. Ci sono voluti un sacco di draft prima di capire chi di loro sarebbe servito alla nostra storia, e ci siamo arrivati solo alla fine. Nel montaggio abbiamo tagliato poi una ventina pagine di informazioni sui personaggi, e di spiegazioni sulle loro azioni. Non ci sono scene in cui vediamo i personaggi nel loro habitat naturale, li vediamo solo sull’isola. Il motivo per cui il pubblico ci si ritrova è proprio perché sono figure astratte, archetipi”.

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Skin Deep vive infatti di una natura apertamente arcaica, mitologica, l’oracolo che decide i destini degli uomini (questa sorta di monolite al centro dell’isola, che permette il trasferimento delle anime), l’importanza dell’acqua come elemento di passaggio, le metamorfosi e lo scambio di identità. “È tutto questo ma è anche un film di genere. Il punto è che siamo già stati qui, i film di Bergman non erano in qualche modo anche film di genere?”, rincara Dimitrij. “Dobbiamo capire che il pubblico ha sempre voluto essere sfidato: davvero, da quello che abbiamo potuto sperimentare con l’accoglienza di Skin Deep, il pubblico e il sistema industry del cinema vivono su dimensioni differenti, che non si parlano più.”
Si tratta di una delle questioni che per i fratelli Schaad è più importante discutere. “Per un giovane filmmaker all’esordio”, confessa Alex, “cercare di produrre una cosa come Skin Deep può veramente trasformarsi in un deserto emozionale intorno a te, se non hai la fiducia o il supporto di cui hai bisogno. Abbiamo pensato almeno cinque volte di abbandonare tutto, ci abbiamo messo tre anni per trovare i finanziamenti. È stato frustrante”. Non c’è più un futuro al di là dei festival e del circuito delle piattaforme ‘alternative’ per il cinema arthouse?
“Io non penso che la nostra società non abbia più voglia di vedere film, compreso questo tipo di cinema – forse il problema è più in chi si occupa di marketing, o in chi dovrebbe distribuire il tuo film”, ribatte Dimitrij, “chi leggendo il nostro script diceva ‘non sapremmo come venderlo’, ‘come pensiate che una cosa del genere si possa vendere’, e così via. E il punto non è la qualità dei film, io credo che l’epoca in cui viviamo sia quella in assoluto nella storia dell’uomo in cui tutta l’arte ha raggiunto un livello altissimo, la musica, il filmmaking, le collaborazioni, eppure ci preoccupiamo ancora dell’esistenza o meno di un pubblico per queste cose”.

Il film ha portato a casa il Queer Lion di questa edizione del festival, a conferma che appunto che un pubblico esiste, e lancia segnali. “Demolendo l’idea di ruoli prestabiliti a favore di infinite possibilità fluide, il film riesce nell’audace intento di trasformare l’acronimo LGBTQ in una singola parola”, si legge nella motivazione del premio. Un po’ quello che Alex Schaad fa con le ‘gabbie’ dei generi: “Bilanciare tutto questo è stato un processo andato avanti fino a quando non abbiamo completamente chiuso il film, comprese le musiche e gli effetti”, conclude il regista, “perché per noi era fondamentale abbattere i confini del genere, mescolare. È una cosa che il pubblico della Gen Z fa già inconsciamente, figlia di ore e ore di visioni incrociate e liberissime. Lo sapevamo già al tempo della scrittura, che ogni atto della sceneggiatura avrebbe avuto almeno un genere diverso di riferimento: e abbiamo poi avuto bisogno di attori totalmente consapevoli di cosa stessero per fare. È stato un processo, anche insieme a loro, portato avanti per tentativi ed errori”. Dove, come capiamo anche dalla soluzione finale adottata da Tristan e Leyla nel film, la scelta più semplice e scontata può rivelarsi davvero la sfida più difficile, consapevole e complessa.

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