#Berlinale2017 – Una Mujer Fantástica, di Sebastián Lelio

Cineasta con un bisogno costante della sottolineatura per essere sicuro di aver fatto passare il messaggio, Lelio ritorna ancora sui suoi passi con minime variazioni di tematica urgente. Concorso

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Lelio ritorna ancora una volta sui suoi passi, con minime variazioni su di una struttura che oramai e’ ben piu’ della traccia stilistica precisa di una forma di cinema esponenzialmente piu’ lavorato e catchy – nel look e nella concezione – di quanto l’apparente semplicita’ espressiva lasci ad intendere, e a che la Berlinale sembra apprezzare (qui passo’ anche il precedente, fortunato Gloria) probabilmente per via dell’impegno sull’attualita’ sempre puntuale, corretto, ineccepibile. E dunque, ecco il film di Sebastian Lelio sulla scottante, urgente problematica di gender: anche stavolta produce Pablo Larrain (che porta in dote i volti del suo cinema, Antonia Zegers e Luis Gnecco), nume tutelare e popstar istituzionale del “nuovissimo cinema cileno”. Sara’ forse per questo che Lelio azzarda sequenze di una goffa visionarieta’ accennata, addirittura brevi coreografie oniriche che irrompono nell’usuale pedinamento garbato della protagonista Marina, alle prese con la persecuzione da parte delle istituzioni e dei familiari dell’amato Orlando, morto improvvisamente di notte tra le sue braccia di amante.
La ex-moglie e i figli dell’uomo rivogliono l’auto, l’appartamento, il cane, e conoscere la verita’ su quella relazione “perversa”, fino a far avviare un’indagine alla Polizia: Marina infatti e’ nata col nome e la conformazione sessuale di Daniel, e nonostante i modi, l’abbigliamento e il make up siano quelli di una donna, il corpo svela incontrovertibilmente la gabbia biologica in cui e’ prigioniera l’anima di questa “donna fantastica”. Basta questo a farne la vittima designata dell’odio, del risentimento e della ricerca di un responsabile per la tragica fatalita’ inevitabile della morte di Orlando. “Non so come definire quello che vedo di fronte a me”, viene continuamente ripetuto a Marina dalle persone della famiglia dell’uomo che incontra per la prima volta.

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Lelio lavora incessantemente su questa tensione sul volto, sulla voce cangiante e sugli scatti nervosi della figura interpretata con caparbieta’ da Daniela Vega, ma non vince la tentazione di sottolineare i diversi sottotesti della sua storia con una serie scoperta e ingombrante di simboli, raddoppi, immagini esemplari (specchi, denudamenti, cremazioni, luci, nebbie e vapori, il significato letterale delle arie d’opera che la protagonista si sta esercitando ad eseguire…) che portano il film all’impasse di una sezione conclusiva indecisa in 3-4 finali messi in fila, e di fatto raccontano di un cineasta che ha un bisogno costante della sottolineatura per essere sicuro di aver fatto passare il messaggio.
Accompagnata dalle visite continue del fantasma di Orlando, Marina vaga tra le mille facce, da quella altoborghese a quella alternativa fino a quella underground dei quartieri del sesso, di una Santiago che difficilmente Lelio riesce a far respirare per davvero, fino alla sequenza dell’intimidazione violenta per strada e poi in auto da parte degli amici del figlio del defunto, forse l’esplicitazione definitiva della metodologia di Lelio, che imbastisce tutta la breve giravolta narrativa dissonante per poter avere un’altra immagine forte, un altro fotogramma-simbolo, quello del volto di Marina trasfigurato in fattezze deturpate dal nastro adesivo che i farabutti le hanno stretto intorno alla testa insultandola.

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