Blog NET NEUTRALITY – Ennio Morricone è il fischio nell’orecchio

Il maestro, al di la dei memorabili omaggi critici dei suoi estimatori (tra tutti, John Zorn…) è nella nostra testa, il suo suono è ormai un’entità privata, soggettiva, prossimo alle sensazioni

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Nelle gare di un campionato di calcio lunare, all’ingresso scaglionato in campo delle squadre e degli ufficiali di gara, hanno risuonato le note di C’era una volta in America o C’era una volta il West con audio sommesso, anche perché private di cori di parte a sovrapporsi. Ecco, questa è l’idea che ho di Ennio Morricone nell’afa estiva, la fusione perfetta di cuore e mente, la musica senza tempo, romanticismo e lirismo che palleggiano in mezzo ad una cattedrale nel deserto o svegliandosi alle 4:30 di mattina, dopo l’ennesima notte insonne, e passeggiare nervosamente (magari anche correre, come usava Morricone nello smisurato appartamento romano) nel salone di casa. Si sa, Ennio Morricone è il vero mago del suono: ocarina, slapstick, col fischio o senza, riff di chitarra elettrica, sontuose orchestrazioni sinfoniche, in combinazioni ineguagliabili. In verità, nasceva come trombettista, “trombista”, come amava considerarsi, strumento bandistico per eccellenza, elevatosi, attraverso il solismo e l’improvvisazione, a protagonista di una nuova e brillante stagione esistenziale.

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Quelle velleità giovanili probabilmente furono l’avvio al sincretismo del maestro, manifestatosi poi in tutta la sua potenza componendo per il cinema, scavalcando la barriera tra la musica originale per film e colonna sonora. Si perché proprio la tromba, grazie ai grandi del jazz, mostrò la sua essenza più profonda, in quanto strumento a fiato “cantante”, veicolo di straordinarie invenzioni melodiche, estemporanee o pensate in anticipo che fossero. Pochi tasti e infiniti impasti, come le sole tre magiche dita di Django Reinhardt (pistolero di scale…) sulla sua chitarra, tanto amato da Morricone. Aliti di vento, lancette di orologio, polvere di scena, hanno reso Morricone il regista del regista, il sound designer dei suoi leitmotiv che ti fischiano all’orecchio senza tregua, che ti pongono sulla frontiera polverosa o devastata delle scelte, quella dantesca per intenderci. Nel 2574 Ennio Morricone ci sarà ancora, perché quel numero così distante corrisponde anche al numero della sua splendente stella sulla Hall of Fame, perché in quel futuro ci si chiederà ancora che cosa sono i suoni. Messaggeri di informazioni cruciali per il riconoscimento degli oggetti che ci circondano o entità evanescenti e distinte da essi? Perché, pur essendo sempre sommersi da suoni di cui non siamo consapevoli, ci accorgiamo immediatamente della loro assenza nelle situazioni di più totale silenzio?

Ecco, Ennio Morricone, al di la dei tanti memorabili omaggi critici dei suoi estimatori (tra tutti, quello di John Zorn…) è nella nostra testa, il suo suono è un’entità privata, soggettiva, molto simile alle sensazioni. La musica di Morricone, ma ancor di più il suono, è inconcepibile in assenza di un’esperienza del tempo, mentre è magicamente concepibile anche in assenza di un’esperienza dello spazio. Con Morricone (e Teho Teardo, in primis, forse il più “vicino” dei compositori moderni…) c’è da chiedersi se l’udito è più simile al tatto che alla vista. Dove i suoi suoni, che escono liberamente dallo schermo, dalla cornice, vanno a finire? I suoni di Morricone magicamente vanno a finire da un’altra parte, escono prepotentemente dalla cornice dell’esperienza, proprio perché nel suo mondo non c’è solo lo spazio ma anche e soprattutto il tempo. Parafrasando Emilio Salgari, capace di scrivere come pochi di luoghi mai esplorati, capace di raccontare la malinconia dell’avventura: “Andate! Ci rivedremo nel lontano West!… chissà che non ci rivediamo un giorno… Da tempo accarezzavo un sogno!” Quel fischio nell’orecchio è un sibilo persistente, di tono mutevole, che talvolta accompagna, in una radio bisognosa di riparazione, i sogni che ascoltiamo.

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