BODYGUARD. L’immagine è il nemico

Per Netflix veicolare l’ansia collettiva diventa un modo di fare Politica. Ecco la miniserie inglese sulla paranoia mondiale per cui Richard Madden ha appena vinto il Golden Globe

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C’è sempre qualcuno che ci guarda. Dietro o davanti allo schermo, magari un essere indefinito che appartiene a un sistema alieno e irraggiungibile, un nemico pubblico oppure un algoritmo che segue l’impulso del flusso individuale e universale e costruisce un altro livello di realtà. Ma dove dobbiamo guardare noi per sfidare o nasconderci da questa sorveglianza? E più che altro, dove finisce tutta quell’informazione, il contenuto che generiamo e che diventa un’altra versione di noi stessi? Si fa dispositivo tangibile, materia organica o sparisce nel flusso collettivo?

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Mentre i diversi sistemi di potere si moltiplicano e si espandono fino a rendersi incalcolabili, Netflix aggiunge al suo algoritmo Bodyguard – miniserie inglese di sei episodi, creata da Jed Mercurio e record di ascolti degli ultimi dieci anni nel Regno Unito – e continua a riflettere sulla paranoia collettiva, diventata anche una risorsa infaticabile di materiale, costruzione d’immaginario e de-costruzione dell’immagine, fantasia e distopia. Così, quasi in una condizione di paradigma, la paranoia si rende anche un prodotto misurabile ed efficace – con Black Mirror e il suo Bandersnatch – che è possibile mettere dentro una cornice. Se lo sviluppo geo-politico dei decenni precedenti rispondeva alla conquista di un territorio fisico, l’esplosione di una guerra mondiale imminente, la corsa agli armamenti oppure al silenzio prolungato di una nazione nemica, oggi la tensione ed ebollizione ha più a che fare con l’immagine scelta come l’arma più potente e distruttiva, con l’occhio quotidiano e vicino come punto di fuga, con lo spazio privato come campo minato.

Dentro il regno dell’ansia e illusione di insicurezza, paure politiche, sociali e individuali che una piattaforma come Netflix crea, mastica e seleziona per noi, Bodyguard risponde a quasi tutte le regole del gioco: Brexit, migrazione, politica estera brutale, terrorismo islamico in territorio inglese, razzismo e la sostituzione di uno stereotipo (donne musulmane sottomesse a uomini musulmani) con un altro (tutti i musulmani, uomini e donne, sono terroristi). Un tessuto che si intreccia e segue il personaggio di David Budd (Richard Madden, appena premiato con un Golden Globe), veterano della guerra in Afghanistan che soffre di stress post-traumatico. Dopo aver sventato un attentato terroristico su un treno per Londra, l’agente del Metropolitan Police Service diventa una sorta di eroe nascosto ed è incaricato di proteggere il Ministro dell’Interno Julia Montague (Keeley Hawes). Il sergente Budd segue ogni passo, respiro e sguardo di Julia Montague, anche se lei – difensore tenace dell’intervento inglese nei conflitti in Medio Oriente – rappresenta tutto ciò che lui disprezza e la ragione del suo crollo imminente.

Come se fosse una versione british, trattenuta e condensata di Homeland,Bodyguard è

fedele soprattutto alla sua sostanza culturale: una serie profondamente inglese, londinese, dove quasi tutto rimane nel territorio del non-detto, dove le facce e le espressioni corporee dei personaggi nascondono sempre un motivo, un sentimento, un impulso che non riesce a fluire con naturalità ed arrivare alla superficie. Anche se la tensione, il gioco di specchi e il conseguente riflesso infinito che impedisce di distinguere con chiarezza colpevoli e innocenti, vittime e carnefici, sembra sempre di stare per arrivare al suo punto di ebollizione, la struttura narrativa e drammatica rimane dentro uno spazio di contenimento e raggiunge una certa coerenza che non toglie potenza al racconto né minaccia l’intenzione primaria. Semplicemente, la rende più gestita, flemmatica, grigia, cauta. Impegno che paradossalmente la rivela anche più autentica.

Il fulcro di Bodyguard è, appunto, giocare con gli sguardi trattenuti. Con i movimenti dei corpi che osservano e sono osservati in continuazione, seguiti in ogni passo, ogni azione, senza sapere mai chi guarda chi, da dove viene lo sguardo e dove finisce l’immagine. Non importa se la minaccia proviene da dentro o resta fuoricampo, da una chiacchierata nascosta dietro la porta o da un discorso pubblico in TV, da un saluto cordiale e polite oppure da un duello di pistole in piena via pubblica. Come nel vecchio west, prima ci sono gli sguardi, poi l’azione. Ed è lì, in quell’attimo sospeso, dove si trova l’incanto definitivo.

Bodyguard propone una bella pausa in mezzo al flusso vertiginoso di una Netflix che si spinge oltre i propri limiti e che, ogni volta di più, fa dell’ansia collettiva e della paura delle immagini rubate (di noi stessi) il proprio modo di fare Politica. Senza sapere mai con certezza cosa guarderemo dopo, se siamo davanti ad un’immagine nitida o a un miraggio sfocato, se c’è qualcuno che ci osserva oppure se ci viene nascosto qualcosa.

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