Coma – Intervista a Bertrand Bonello

Abbiamo incontrato il regista francese in occasione dell’uscita in sala in Italia del suo ultimo film. Iperconnessione e proliferazione delle immagini, sogni e collasso degli schermi

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In occasione dell’uscita nelle sale italiane del suo ultimo film, Coma, abbiamo incontrato Bertrand Bonello per parlare con lui della dimensione onirica in cui è immerso il suo film, di iperconnessione e proliferazione delle immagini.

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La dimensione onirica è un aspetto centrale di Coma, questo andirivieni tra stato di veglia e stato di sogno, i cui confini non sono ben identificabili. Un concetto che descrive perfettamente il nostro attuale rapporto con il flusso costante d’immagini a cui siamo sottoposti, che ci tiene sempre connessi, rendendo difficile distinguere la realtà dalla fantasia, dal sogno, dall’invenzione, il vero dal falso. Secondo te il subconscio, oltre ad essere un bacino da cui trarre ispirazione nel processo creativo, che ruolo ha oggi nell’interpretazione della realtà, può essere un mezzo attraverso cui poter leggere e dare risposte a questioni del quotidiano?

È un argomento vasto. No, in ogni caso, hai detto qualcosa di molto giusto, che la separazione tra la veglia e il sonno è molto poco e sempre meno definita. E allo stesso modo tra la realtà e il mentale. Anche sul personaggio di Patricia Coma, più il film va avanti, più ci si chiede se esista o se sia una creazione della ragazzina che cerca una guida, perché è un po’ persa, lei non cerca la classica influencer. Ed è una cosa sempre più difficile oggi. O siamo riportati al reale in modo molto violento oppure siamo riportati al virtuale in modo molto violento, ma il virtuale è anche una forma di reale. Non sono cose che toccano i sogni, non è qualcosa che tocca l’inconscio, è qualcosa che è quasi ultra-realtà e fuggire dal reale o dall’ultra-reale è qualcosa di sempre più difficile e penso che sia sempre più necessario. Sì, penso che abbiamo bisogno di sogni, ma di sogni nel senso più antico del termine, cioè di uscire da ciò che ci circonda per accedere a qualcosa. Non è per niente il sogno nello stile “sogno di avere successo”. Oggi il sogno è “sogno questa macchina, sogno un tale successo, di essere conosciuto, sogno di avere simpatie”, invece abbiamo bisogno di sogni veri.

In una tua precedente intervista (pubblicata sul n. 11 del nostro magazine) hai detto che le piattaforme streaming e la serialità hanno dato più importanza ai contenuti, alle storie, alla scrittura, togliendo centralità alla regia, allo sguardo autoriale, quindi di fatto alle immagini. Ma come dicevamo prima, al giorno d’oggi siamo immersi in un flusso costante di immagini di qualsiasi tipo e formato, non solo filmiche, penso ai social, alla televisione, alle videocamere di sorveglianza che sono presenti anche in Coma. Questa proliferazione di immagini ha portato al collasso dell’immagine stessa, l’ha svuotata di senso ed è chiaro che il film parli anche di questo.

Penso a come possiamo parlare di questo canale, sì, del rapporto con le immagini, del flusso di immagini, quindi ho lavorato molto con le immagini che sono quelle che ci circondano, l’animazione, Youtube, internet, ma cercando di strutturarle, cosa che trovo difficile oggi. È che in questo flusso di immagini nulla è strutturato, ne siamo invasi, lo cerchiamo quando ne abbiamo abbastanza ma non ce ne facciamo molto. Infatti tutto sta nella memoria. Lo stesso si potrebbe dire di un film, del cinema. Possiamo chiederci se quella è solo un’immagine cinematografica e va detto che è un’immagine strutturata dal pensiero e che non è solo un’altra immagine, anche se si tratta di uno Zoom. È come se fosse un piano sequenza che ne fa finalmente un racconto strutturato e dunque anche una riflessione sulle immagini.

Il dispositivo, la molteplicità degli schermi, è un altro elemento centrale del film. Si vedono schermi dello smartphone in verticale, schermate moltiplicate su Zoom dei portatili ecc, la stessa inquadratura del film di allarga e si restringe, cambiando formato. Come ti rapporti al fatto che la sala cinematografica non è più centrale per la visione di un film e oggigiorno si possono vedere sui computer, sui tablet, sugli smartphone, che i tuoi stessi film possono essere visti in queste modalità?

Io, ad esempio, vengo dagli anni ’70, e poi dall’epoca dei DVD, quindi capisco. Ma era un tempo in cui non avevamo accesso ai film allo stesso modo. Oggi possiamo assolutamente vedere tutti i film e questo è l’importante. Ma la mia conoscenza del cinema mi porta nel teatro e dopo il teatro mi fa cercare i film a casa perché non li troviamo nei cinema ecc. Quindi l’approccio deve rimanere fluido. E non è quello che succede oggi. Oggi l’abbandono della sala è un gesto collettivo. Anche io vedo persone in metro che guardano film al telefono, ma poi cosa accade sulla memoria? Io dopo tre giorni non ricordo più niente perché quello che ho visto è inseguito da altre immagini, quando andiamo al cinema, quando prendiamo la metro ecc. Se andiamo al cinema, lì c’è un gesto, certo possiamo guardare i film su internet, possiamo vedere delle immagini, dei disegni, oppure possiamo andare in un museo e lì all’improvviso c’è un’emozione che rimane. Non è solo la conoscenza dell’immagine, è anche emozione e quell’emozione la stiamo davvero perdendo a favore del flusso e del facile accesso. Ma accesso a cosa? A centomila immagini invece di duemila? Non è meglio avere un’emozione di fronte a mille immagini che nessuna emozione di fronte a centomila?

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