FESTIVAL DI ROMA 2012 – "Suspension of Disbelief", di Mike Figgis (CineMAXXI)

Suspension of Disbelief
Quello del thriller e soprattutto l’omicidio che avvia la narrazione si rivelano ben presto solo un pretesto. Figgis sin da subito dichiara i suoi intenti nel creare un film nel quale si stratificano, a volte macchinosamente, vari piani finzionali, da quello diegetico di base fino alla mise en abyme del “film-nel-film-nel-film”. Una trappola nella quale lo spettatore cade in pieno, ma che costantemente ci ricorda che quello che stiamo guardando è finto attraverso una serie di espedienti altamente stranianti

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Suspension of DisbeliefLife doesn’t have happy endings. Life has happy interludes.

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Il dramma. Come si costruisce una storia di finzione. Questo è il dilemma a cui cerca di rispondere Martin, sceneggiatore di successo che insegna a una classe di aspiranti scrittori. C’è una risposta? Forse no. O forse la soluzione è nella citazione che precede il film: la storia e i personaggi hanno una vita propria, che pirandellianamente sfugge anche al proprio autore e che è in grado di assorbire lo spettatore come se si trattasse di vita reale.

Al centro della storia un omicidio, una donna fatale trovata morta in un canale dopo una festa a casa di Martin e della figlia Sarah, attrice impegnata sul set di un film alquanto questionabile. Una gemella che arriva a scombinare le loro vite e a sollevare dubbi sulla sua vera identità e su quella dell’assassino. Un’altra donna, scomparsa quindici anni prima, ma che ancora ossessiona le loro vite. I toni sono quelli del thriller psicologico, che gioca beffandosi dei topoi del noir classico (quello alla Bogey con i suoi cappelli calati sul volto e strade fumose), tra sogni ingannatori e una realtà che sembra sempre nascondere qualcosa. Quasi una ripresa in salsa British di Affari sporchi, un riciclaggio di materiali che provengono direttamente dall’immaginario cinematografico nel quale sono immersi i personaggi stessi, una galleria di tipi che sembrano uscire direttamente da un manuale di sceneggiatura per principianti, ma ai quali, almeno nel caso di Martin, Sarah e Therese, si dona profondità con lo sviluppo della storia, mettendo in luce tutte le loro sfumature più grigie. Più si va avanti e più si scava a fondo, instaurando dubbi sulla loro identità. I personaggi allora sembrano davvero staccarsi dallo sfondo, vivere di una vita propria, autonomi rispetto al loro creatore e altamente imprevedibili. Delle mine vaganti che scompaginano la trama.

Tuttavia, quello del thriller e soprattutto l’omicidio che avvia la narrazione si rivelano ben presto solo un pretesto. Figgis sin da subito dichiara i suoi intenti nel creare un film nel quale si stratificano, a volte macchinosamente, vari piani finzionali, da quello diegetico di base fino alla mise en abyme del “film-nel-film-nel-film”. Una trappola nella quale lo spettatore cade in pieno, ma che costantemente ci ricorda che quello che stiamo guardando è finto attraverso una serie di espedienti altamente stranianti come la suddivisione in atti della storia o la definizione di alcuni termini chiave o ancora le parole che appaiono sullo schermo a riassumere ciò che sta accadendo. Lo spaesamento dello spettatore, costretto a riflettere sui meccanismi della narrazione, si ritrova nelle domande poste a Martin dai suoi alunni, soprattutto sul finale. È davvero importante avere un finale chiuso o meglio lasciarlo aperto? Far immaginare lo spettatore ciò che accade oppure spiegare tutto? Domande inutili, vane di fronte alla forza della narrazione stessa e del cinema che con le sue immagini continua a creare miti.

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