FESTIVAL DI ROMA 2013 – Incontro con Jonathan Demme

jonathan demme ed anthony hopkins sul set di il silenzio degli innocenti

Il premio Oscar Jonathan Demme, autore degli indimenticabili Il silenzio degli innocenti e Philadelphia, incontra il pubblico del Festival del Cinema di Roma alla viglia dell'anteprima del suo ultimo film, Fear of Falling, tratto da un'opera teatrale di Henrik Ibsen.

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 Il premio Oscar Jonathan Demme, autore degli indimenticabili Il silenzio degli innocenti e Philadelphia, incontra il pubblico del Festival del Cinema di Roma alla viglia dell'anteprima del suo ultimo film, Fear of Falling, tratto da un'opera teatrale di Henrik Ibsen.

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È più importante l’idea che comunica il film o il piacere che si prova mentre lo si gira?
 
Ho pensato a lungo alla dimensione narrativa del cinema e non credo che non si possa sfuggire a questo aspetto, se la storia non è forte e ben raccontata il film non può funzionare. Tutti coloro che partecipano alla creazione di un film sono narratori, fanno tutti parte della storia. Gli attori hanno una grande responsabilità, ma anche un operatore racconta una storia, e se si toglie il sonoro, l’inquadratura e la luce devono raccontare la loro storia. Quindi, anche se adoro fare cinema e vivo di questo da sempre, credo che la storia sia di fondamentale importanza.

Lei è un regista consapevolmente politicizzato, oltre che un allievo di Roger Corman, che ha sempre covato un’idea di cinema politico dietro i suoi mostri di cartapesta. Come ha iniziato la collaborazione il suo maestro?

L’incontro con Corman che mi ha segnato per il resto della vita. Stava lavorando a Il barone rosso e mi sono presentato da lui per un lavoro di comunicazione. Avevo visto tutti i suoi film, ero un suo grande fan, e quando e mi ha chiesto se fossi capace di scrivere una sceneggiatura, non ho esitato, ho scritto il mio copione e glie l’ho consegnato. Gli è piaciuto e mi ha chiesto di seguirlo a Los Angeles, era un’opportunità irresistibile.
 

 

L’aspetto più interessante del cinema è la commistione tra le diverse espressioni artistiche, come tra cinema e teatro. Cosa ha scoperto filmando il teatro e passando da un genere espressivo all’altro?

La prima mondiale di Fear of falling è senza dubbio l’esperienza più impegnativa e gratificante della mia vita. L’opera è tratta da Bygmester Solness di Henrik Ibsen, tradotta e adattata da Wallace Shawn, che ha reinterpretato la fantasia di redenzione di Ibsen, mostrando uno dei due architetti rivali sul letto di morte. È una compagnia teatrale straordinaria, quest’opera mi ha fatto commuovere e volevo portarla sullo schermo. Nella realizzazione di questo film mi sono reso conto che non è facile portare al cinema un’opera teatrale, che performance come queste non sono adatte al cinema, ma era una mia ferma intenzione celebrare il teatro sullo schermo.

 

Questo film segna il ritorno al cinema indipendente. Come è stato volgere le spalle alla grande industria?

Non ho mai voltato le spalle alla grande industria. Ho lavorato ad un remake di The Manchurian Candidate dopo aver lavorato come regista indipendente, e il budget a mia disposizione per questo film era immensamente più alto dei precedenti. Quando si investono grandi cifre per un film, bisogna necessariamente pareggiare la spesa al botteghino e io non pareggio e io non volevo questa responsabilità. È giusto investire nel cinema ma a 60 anni, pur sapendo di poter lavorare con grandi cifre, ho deciso di spingermi verso la realtà del cinema indipendente.

La musica può influire molto sulla messa in scena?

Sono un grande appassionato di musica e credo che il cinema riceva e dia qualcosa alla musica e viceversa. La musica, o la sua assenza, può dare un nuovo significato ad una scena sia che si tratti di un pezzo originale o riadattato. In Enzo Avitabile Music Life ho lavorato a stretto contatto con Enzo Avitabile, uno straordinario compositore napoletano. Abbiamo passato una settimana insieme a comporre musica ed è stata un’esperienza molto importante per me. Il tema del film sono gli strumenti musicali e ciò che succede nella fusione della musica individuale di strumenti diversi mentre suonano contemporaneamente. La contaminazione e la collaborazione delle armonie fa parte anche del cinema e il suo rapporto con la musica è imprescindibile.
 

 

Nel documentario Neil Young: Heart of Gold, ha conosciuto Neil Young. Come si è sviluppato questo rapporto?

Neil, che tra l’altro ha appena finito il suo nuovo album, è un perfezionista, è attirato dalla sperimentazione, ed è cinematico come Enzo. Lui ama essere ripreso e lavorare con la cinepresa. Come lui anche David Byrne, con cui ho collaborato per Stop Making Sense, il dvd del concerto di The Talking Heads, è un incredibile perfezionista ed è cinematico anche nei suoi concerti, in cui gioca con le luci e con i musicisti che trasforma continuamente, rendendoli parte integrante della performance.

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