inizioPartita. Devumi: un piccolo vaso di Pandora?

Pagando fior di dollaroni a Devumi, il proprio profilo Twitter, YouTube, LinkedIn, Vimeo, Pinterest, SoundCloud e Kickstarter, apparirà ricevere più apprezzamenti di quanti non ne abbia in realtà…

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Un’inchiesta abbastanza approfondita del The New York Times, pubblicata qualche giorno fa ed intitolata The Follower Factory, ha posto sotto la luce dei riflettori una pratica pubblicitaria oramai comunemente accettata che, tuttavia, ha sempre presentato e continua a presentare risvolti piuttosto scorretti.

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L’articolo, scritto a più mani (gli autori sono Nicholas Confessore, Gabriel J.X. Dance, Richard Harris e Mark Hansen), si scaglia in particolare contro Devumi, una semi-sconosciuta azienda newyorkese, il cui unico business è quello di “vendere” follower sui principali social-media.

In pratica, pagando fior di dollaroni a tale compagnia, si può far risultare che il proprio profilo presente su Twitter, YouTube, LinkedIn, Vimeo, Pinterest, SoundCloud e, forse, persino su Kickstarter, riceva più apprezzamenti di quanti non ne avrebbe in realtà.

Come può Devumi ottenere ciò? È abbastanza semplice: la compagnia possiede alcuni software in grado di creare dei falsi profili utente, ma comunque credibili, sui principali social-media, ed altri software automatizzati (…quelli che vengono solitamente definiti, in gergo informatico, “bot“) capaci di gestire tali profili per lanciare campagne di tipo “influencer“. In pratica, un utente tipo che si rivolge a Devumi, vedrà aumentare il numero di utenti (naturalmente “fake”) che lo seguono e che apprezzano i contenuti pubblicati sui propri profili; non si tratta certo di narcisismo informatico, ma di un’astuta pratica pubblicitaria per raggiungere due scopi principali.

Il primo riguarda la capacità di ingannare gli algoritmi su cui si basano i software che gestiscono la visibilità sui social-media. Maggiore è il numero di follower di un determinato profilo, più importanza verrà attribuita da quegli stessi algoritmi ai contenuti su di esso pubblicati; i calcoli risultanti poteranno gli automatismi di quel determinato social-media a fornire maggiore spazio e tempo di visualizzazione a tali contenuti, rispetto magari ad altri contenuti più interessanti, ma apparentemente seguiti da un minor numero di utenti.

Il secondo riguarda la capacità di influenzare utenti reali: se un profilo è apparentemente seguito da un gran numero di utenti (…non importa che, in realtà, siano falsi), ed i contenuti su di esso pubblicati ricevono maggior tempo e spazio di visualizzazione, anche un certo numero di utenti reali (…solitamente quelli con un minor senso critico) finirà con il convincersi – prima o dopo – che quello stesso profilo e quegli stessi contenuti abbiano una discreta valenza sociale. Il risultato sarà un successivo incremento di follower reali ed un incremento della notorietà del proprietario di quel profilo.

La pratica è oramai conosciuta da anni. Le stesse aziende che gestiscono i social-media cercano di opporsi ad essa, ma con scarsi risultati; pertanto tendono a minimizzare oppure a negare la questione, evitando fughe di dati riguardanti il numero dei falsi profili individuati e chiusi ogni anno. Il grande pubblico degli internauti non deve interessarsi a questo problema. Perché, in effetti, se ci si riflette un po’ su, tale meccanismo mina la credibilità dei social-media proprio alla base.

Ad ogni modo, se si tratta di uno stratagemma conosciuto da tempo, perché gli strali ora sono tutti per Devumi?

Beh… il fatto è che qui si è anche passati oltre… il software di Devumi in grado di creare falsi profili utente, per generare degli account più credibili, preleva in maniera fraudolenta i dati dai profili Facebook di emeriti sconosciuti (…foto comprese) e li copia&incolla sul social-media scelto come bersaglio. In pratica qualcuno si è ritrovato ad avere magari un profilo Twitter a proprio nome (…e senza averne il controllo), quando in realtà sapeva di aver creato solo un profilo su Facebook. Ovvero, un vero e proprio furto d’identità. Cosa che, in sé stessa, costituisce un reato.

L’articolo riporta l’esempio di Jessica Richly, una teenager del Minnesota, grande appassionata di lettura e musica rap, come anche assidua frequentatrice di Facebook, che ha casualmente scoperto il furto della propria “identità informatica”, essendo stato creato su Twitter un fake-account con tutti i suoi dati e foto (…naturalmente non da lei stessa).

“Stranamente” tale account twitta con regolarità suggerimenti su investimenti immobiliari in Canada, sulle cryptovalute di tendenza, su di una radio-emittente ghanese e sul sito pornografico Squirtamania, che con i gusti o le preferenze della nostra sventurata centrano ben poco.

Probabilmente ci penserà la legge a porre un freno a Devumi e ad altre aziende omologhe. Ma tutta questa vicenda dovrebbe servire a far riflettere sull’atteggiamento acritico che, abbastanza spesso, gli utenti dei social-media dimostrano di avere nei confronti dei contenuti veicolati dagli stessi, e, soprattutto, di chi li propone. Fosse la volta buona che si è scoperchiato il classico vaso di Pandora…

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