INTERVISTE – Su "Rosy-fingered dawn – un film su Terrence Malick", conversazione con Carlo Hintermann e Gerardo Panichi

Non sono in molti a poter dire di aver avuto contatti confidenziali con uno dei cineasti più riservati del cinema moderno; con quest'intervista cercheremo di mettere a fuoco i passaggi principali in cui il documentario ha preso forma.
Sabato 6 dicembre al Cineclub Detour (via Urbana 47/a, Roma) proiezione ed incontro con gli autori.

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Sentieri Selvaggi ha incontrato Carlo Hintermann e Gerardo Panichi, due dei quattro autori del documentario Rosy-fingered dawn – Un film su Terrence Malick, presentato nella sezione Nuovi Territori di Venezia 59 e firmato anche da Daniele Villa e Luciano Barcaroli. Questi filmaker italiani, provenienti da Roma, sono stati tra i più invidiati dell'edizione 2002 del Festival di Venezia: non sono molti, infatti, a poter dire di aver avuto contatti approfonditi – a volte confidenziali – con uno dei cineasti contemporaneamente più leggendari e riservati del cinema moderno; e nessun altro a poter vantare l'approvazione di questo sfuggente regista su un film che lo riguardava in prima persona. L'esperienza dei quattro giovani – tutti trentenni o giù di lì – oltre che essere stata per loro particolarmente formativa, dà modo di comprendere meglio i selvaggi sentieri attraverso i quali – spesso, per fortuna – il cinema si muove: con questa intervista cercheremo di mettere a fuoco alcuni dei passaggi principali in cui il documentario ha preso forma.

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S.S.: Il film su Malick è arrivato dopo lavori di ricerca su Otar Ioseliani e Takeshi Kitano, sfociati in pubblicazioni e – nel caso di Ioseliani – anche in un documentario realizzato per Rai-Sat Cinema. Qual è il senso di questo percorso?


C.H.: Quello che cerchiamo di condurre è una sorta di approccio diretto al cinema, basato contemporaneamente sul desiderio di approfondire un insieme di interessi individuali, di ottenere dal nostro lavoro un ritorno in termini di crescita personale – professionale quanto umana – e di fare luce su universi culturali disparati, diversi dal nostro, per metterne in luce distanze ed analogie; ecco allora il lavoro su Ioseliani, cineasta portatore di un bagaglio culturale di una certa Europa, o su Kitano, che ci ha aiutato a comprendere un tratto particolare di una realtà orientale, giapponese nella fattispecie, osservata nel suo interagire con le strutture tipiche degli apparati estetici del cinema. Malick, per questo, ci è servito per conoscere una scena produttiva come quella americana; ma, soprattutto, ci ha dato la possibilità di comprendere meglio "l'America", un territorio complesso, distante e – a volte – incomprensibile. E' stato un vero e proprio viaggio, un percorso che abbiamo cercato di riprodurre nel film.
G.P.: Quello che cerchiamo di fare è tradurre l'amore per il cinema in qualcosa di concreto: "fare" il cinema con curiosità, approfittando dei mondi che grandi autori, come quelli di cui ci siamo occupati, aprono davanti ai nostri occhi.


S.S.: L'impressione è infatti che l'accento sia marcato in misura particolare sulla "persona" Malick, come sulla "persona" Ioseliani o Kitano, piuttosto che sui loro modi di fare cinema…


C.H.: Sì, l'intento era quello di evidenziare le relazioni interpersonali tra coloro che partecipano alla creazione di un film; Malick, ad esempio, lavora con equipe stabilite, il cui lavoro è basato sul rispetto reciproco, sulla volontà condivisa di fare degli sforzi per ottenere un determinato risultato. Anche in questo, come per il fatto di dare moltissimo e ricevere altretttanto, Malick, Ioseliani e Kitano sono accomunati…


S.S.: Dal documentario, Malick esce quasi santificato…


G.P.: Sì, è una critica che alcuni ci hanno rivolto… Eppure, noi non abbiamo fatto altro che mettere assieme le testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto sul set, e che magari sono entrati in sintonia con lui, tanto da rimanerne amici per tutta la vita: Martin Sheen, Jack Fisk, sua moglie Sissy Spacek… Comunque, a ben vedere, qualche voce fuori dal coro – anche se mai totalmente "negativa" – si riesce a trovare… Malick non è un santo: è una persona guidata da un'etica, e le persone che lavorano con lui avvertono questo fatto. Anche per questo lo amiamo, perché ci riporta al nostro modo di vedere il cinema: come confronto, come comunicazione, come mettere sé stessi in gioco…
C.H.: Alla fine Malick è una sorta di catalizzatore per coloro che hanno lavorato con lui, perché una delle sue grandi capacità è quella di riuscire ad individuare le caratteristiche di ognuno, e di lavorare su quelle. Malick ottiene un'adesione così forte perché ha dato a queste persone la possibilità di scoprire qualosa di loro stessi. Fa così con tutti: lo ha fatto anche con noi; ad esempio, dopo aver stabilito di massima le coordinate del progetto, ci chiamava per sapere come andavano le cose; poi ci ha contattati dopo aver visto il film, facendoci entrare in una sintonia tale da farci dimenticare chi fosse…
G.P.: Figurati come potevamo sentirci… Malick che chiedeva a noi informazioni sulla tecnologia digitale, lui che possiede una capacità visiva potentissima… Ti fa capire la sua curiosità, e il fatto che cerca di entrare in comunicazione con tutti.



 

S.S.: L'idea del documentario precede oppure è venuta dopo quella del libro-intervista?


C.H.: La nostra ambizione era quella di scrivere libri che sembrassero film; come per Ioseliani, ad esempio. Poi l'irruenza visiva di Malick, la possibilità che lui stesso ci aveva offerto di entrare in contatto con tante persone coinvolte nei suoi film, ci hanno fatto scegliere per la forma-film… Capisci, in Italia pensare di fare un documentario è gia un'idea espressiva "di nicchia", poi farlo incentrando il tema su un cineasta diventa quasi una follia…
G.P.: Chiaramente trovare il denaro necessario allo sviluppo di un progetto come questo è difficilissimo; abbiamo quindi pensato all'Europa, col suo progetto Media…
C.H.: …ai responsabili del quale lo stesso Malick ha scritto, per sostenere il nostro lavoro…
G.P.: …e poi abbiamo trovato due co-produttori come Alessandro Verdecchi e Patrizia Tallarico, che hanno creduto in noi, nonostante i tempi di sviluppo lunghi e i costi non proprio contenuti, ed hanno reso possibile il film.


S.S.: Affrontate queste cose con molta umiltà…


G.P.: Per noi più che di umiltà si dovrebbe parlare, ancora una volta, di un percorso da seguire; un percorso sul quale, magari, devi dare tanto… E comunque le lezioni di umiltà che danno personaggi come Malick o Ioseliani sono fondamentali… Te lo immagini Malick, che dice a noi quattro "Sono un po' imbarazzato… non vorrei essere ripreso con la videocamera…", poi chiama di persona delle star come Sean Penn chiedendo loro di partecipare al nostro lavoro…


S.S.: Il profilo di Malick è quello di una persona estremamente schiva, che preferisce stare lontana dalle luci dei riflettori; qual è, secondo voi, la motivazione che lo ha spinto a partecipare al progetto Rosy-fingered dawn?


C.H.: Il primo approccio che abbiamo avuto con Malick è stato il contatto con il suo agente, che aveva precise disposizioni di rifiutare qualsiasi proposta che tendesse ad esporre il regista; successivamente, però, abbiamo avuto la possibilità di spiegare ciò che volevamo fare: che non ci interessavano dati personali, ma che il nostro desiderio era quello di utilizzare la sua opera per far conoscere al pubblico una certa realtà americana. Sapevamo che avremmo dovuto avere un enorme rispetto della sua riservatezza, e fin dal primo incontro a Milano sottolineammo che non era nostra intenzione estorcergli nulla; piuttosto, avevamo già abbastanza chiaro l'elenco di persone – tecnici, attori, collaboratori abituali – che avremmo voluto contattare. Abbiamo dimostrato a Malick che il nostro interesse era sostenuto da uno studio approfondito della sua opera, e gioia grande è stata quella di vedere la sua visibile soddisfazione confermare le nostre scelte: si era aperto un canale di comunicazione, che lo ha rassicurato e lo ha condotto su un piano di confronto con noi.
G.P.: Pensa che, ad un certo punto, lui ha cominciato a ragionare sulle difficoltà di produrre in Italia; incoraggiandoci, ci diceva di non mollare, perchè se trovavamo un muro bisognava aggirarlo…


S.S.: Quindi possiamo dire che Malick si è convinto per l'interagire di una combinazione di fattori…


G.P.: Esattamente. Tra l'altro credo che Malick non avrebbe mai fatto il regista, se non avesse avuto il desiderio di comunicare con gli altri; è solo una persona molto timida, che vuole vedere negli altri il rispetto per il lavoro che fa, come lui lo ha per il lavoro degli altri. Quando avverte questo piano di corrispondenza reciproca, è ben contento di comunicare…
C.H.: C'è in lui un lato che si concentra tutto sul rapporto umano, e in quell'ambito le interviste non c'entrano nulla… Dopo cinque, sei ore che parlavamo, la nostra conversazione aveva raggiunto temi che non ci saremmo mai aspettati di toccare; noi stessi, quando abbiamo capito che la sua ritrosia non era costruita a tavolino, ma che Malick era solo infastidito dal parlare di sé in pubblico, ne abbiamo preso atto ed abbiamo proseguito in accordo con questo fatto…


 

S.S.: Ad un certo punto del film Haskell Wexler dice: "La verità è solo sulla pellicola e la gente la manipola secondo la propria idea di verità". E' una frase che è, assieme, un trattato di filosofia e di cinema.


C.H.: Infatti Wexler (n.d.r.: tra tutto, due volte Oscar per la fotografia, per Chi ha paura di Virginia Woolf? e per Questa terra è la mia terra), a ottant'anni, si interroga ancora sul senso delle immagini; la sua esperienza documentaristica in Vietnam gli stimolava riflessioni sul cinéma-verité, che da noi, in Europa, sono forse obsolete ma che in America sono ancora attuali. A noi piaceva quella frase, dava un altro senso all'arbitrarietà delle nostre scelte in fase di montaggio del documentario…


S.S.: Cioè, era come una vostra dichiarazione di intenti…


G.P.: Sì: bisogna ringraziare Luciano (n.d.r.: Barcaroli, uno dei quattro autori del film) che,  mentre eravamo in montaggio, disse "Guardate, questa frase rappresenta proprio quello che stiamo facendo"; in effetti è il nostro modo di approcciare il cinema, ed il fatto che l'avesse detta Wexler era un ulteriore vanto…


S.S.: Il vostro tributo a Malick è evidente, nelle scelte stilistiche che hanno determinato la "forma" finale del film. Ce ne sono esempi di continuo, ma uno di quelli che mi ha incuriosito di più è la majorette che si esibisce di fronte alla vostra cinepresa: ricorda l'esibizione estemporanea dell'uomo di colore ne I giorni del cielo


C.H.: Volevamo dare vita a questa realtà della provincia americana, restare vicini ai film di Malick…
G.P.: Sì, si tratta di verità profondamente americane; e Malick colpisce proprio perché, pur essendo considerato, dal punto di vista espressivo, un regista "europeo", è un grande indagatore della società americana. E quando siamo stati a La Junta, dove venne girato La rabbia giovane, abbiamo ritrovato quella società…
C.H.: E' stata una scoperta continua… L'America ha un lato veramente primitivo, di contatto con gli elementi naturali, di confronto con cose infinitesime e circoscritte; ad esempio, nel colloquio con Sam Shepard ci siamo confrontati con l'espressione profonda di una cultura diversa dalla nostra… Shepard aveva uno sguardo completamente privo di pregiudizi, e ci ha aiutato a toglierci i panni dell'osservatore europeo: più ci avvicinavamo a quel modo di pensare, più ci avvicinavamo al cinema di Malick. E' stato così che abbiamo scoperto che moltissime delle cose che sembravano in sintonia con la cultura europea – musica, dialoghi, montaggio, paesaggi – erano invece aderentissime alla provincia americana…


S.S.: A proposito di musica, il commento alle immagini dà un contributo fondamentale…


G.P.: E' una grande soddisfazione sentirtelo dire, perché le condizioni in cui sono state registrate non sono certo definibili come "ottimali"…
C.H.: In effetti il commento era già nella nostra mente prima ancora di iniziare a girare… Avevamo in mente relazioni e contrappunti con le musiche dei film di Malick, e ci siamo anche divertiti a sottolinearle, a confrontarci con esse scrivendo pezzi nostri che partivano da suggestioni evocate dalle musiche originali.


S.S.: Immagino che avrete dovuto rinunciare a qualcosa, alla fine del montaggio del film…


G.P.: Diciamo che normalmente un documentario, per sua natura, non dura – come nel nostro caso – un'ora e mezza; quindi in realtà ha trovato posto tutto quello che volevamo. E' chiaro che ci sono contributi che abbiamo dovuto tagliare a malincuore: penso ad Arthur Penn, ad Edward Pressman (n.d.r.: il produttore de La rabbia giovane, ma anche di True Stories, Wall Street, Talk Radio, Il cattivo tenente, ecc.), ma nell'insieme possiamo ritenerci soddisfatti…
C.H.: Il nostro voleva essere un percorso, un viaggio; ed al di là dell'accelerazione finale, per permetterci di presentare il film a Venezia, il nostro cammino era compiuto. L'approfondimento di temi che speriamo il film possa suscitare potrà avvenire nel libro che stiamo preparando (n.d.r.: di prossima uscita per Ubulibri), che per sua natura ha una forma più opportuna per presentare, ad esempio, la vasta aneddotica scaturita dai colloqui con i vari personaggi…



 

S.S.: Malick sta preparando qualche film?


C.H.: Come dice Jack Fisk (n.d.r.: scenografo ed amico di Malick; Carrie, lo sguardo di Satana, Una storia vera, Mulholland Drive), Malick vuole fare dei film e li farà; sappiamo che ha già scelto i collaboratori, ma come puoi immaginare non abbiamo indagato più di tanto…


S.S.: Alla fine di tutto: chi è Terrence Malick?


C.H.: Secondo me è semplicemente una persona molto realizzata nel modo in cui vive, che è appagata nel fare le cose che fa, e che le gestisce così come si presentano…
G.P.: Penso che Malick sia un freak: è una persona assolutamente normale nonostante quello che la gente possa pensare di uno che fa il suo lavoro… E' una delle persone più normali del mondo, ed in questo senso è veramente un freak…
C.H.: Sì, non ha l'ansia di mettere tutta la sua vita in una sola cosa; non è un compulsivo come Scorsese, non è un accademico né un filosofo tout court… Le sue conoscenze filosofiche permeano tutto ciò che fa… Non ha neanche lo stress di colui che vuole mostrare a tutti quanto è normale la sua vita… La sua privacy è reale, il suo modo di agire gli permette di vivere una vita comune: Malick vuole potersene andare liberamente in giro, a mangiare un panino, a fare una passeggiata, e se non si comportasse così non potrebbe mai farlo…

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