L'angolo di Cinemafrica – L'uomo di fuoco "Making off" di Nouri Bouzid

Dopo l'anticipazione di alcune scene al festival Panafricana, Making off è stato presentato in anteprima mondiale alle Journées Cinématographiques de Carthage, dove Nouri Bouzid ha ottenuto, a vent'anni di distanza da L'Homme de cendres, il suo secondo Tanit d'oro. Parte da questo mese una nuova rubrica in collaborazione con il portale cinemafrica.org

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di Leonardo De Franceschi

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Strano destino, quello di questo sesto film di Nouri Bouzid. Dopo la presentazione di alcune scene a Panafricana, Making off, praticamente pronto, è stato rifiutato prima da Cannes e poi da Venezia. Per un film così controverso e pericoloso, tanto il regista quanto i pochi che hanno avuto modo di visionarlo tutto potevano augurarsi quanto che a novembre risultasse ancora inedito, così da dover a quel punto essere necessariamente presentato in anteprima mondiale proprio alle Journées Cinématographiques de Carthage. Eppure proprio questo scenario, che all'inizio si prospettava come una iattura, ha regalato a Nouri, grazie al coraggio di una giuria militante, diretta con polso fermo e piglio polemico dallo scrittore libanese Elias Khoury, la soddisfazione di tornare a sollevare tra le mani, a vent'anni di distanza da L'Homme de cendres, il suo secondo Tanit d'oro.


Cominciamo subito col dire che dopo un film-summa come Poupées d'argile (2001), schiacciato tra il riaffiorare di ossessioni personali mai superate (un rapporto castrante col padre) e l'intento di affrontare una questione sociale non pienamente scandagliata (la condizione delle ragazze a servizio nelle case borghesi, prelevate molto piccole dai loro villaggi d'origine), con Making off Nouri torna al suo miglior cinema, a produrre un discorso che con la forza delle immagini provoca lo spettatore, costringendolo a mettere in gioco i suoi disvalori, incrostazioni sedimentate di un immaginario patriarcale, minato e consolidato al contempo, da troppe sconfitte.


Tunisi, aprile 2003. Shukri, che tutti chiamano Bahta, è stato per l'ennesima volta bocciato all'esame di maturità. Il padre tassista gli ha tagliato i cordoni della borsa, e allora anche le carezze della madre e la complicità del fratellino non bastano a tenerlo in casa, così sfoga le sue frustrazioni esibendosi in alcune gare semiclandestine di street dance con un gruppo di amici del sobborgo di Radès. Sorpresi dalla polizia mentre riempiono di graffiti un sottovia, Bahta e gli altri vengono fermati ma rilasciati quasi subito, grazie alla parentela con il cugino Rezgui. Mentre i notiziari annunciano la caduta di Baghdad, eccitato dall'atmosfera di tensione che c'è nell'aria e infastidito dal comportamento troppo libero della fidanzata Soad, Bahta le fa una scenata sotto casa che richiama di nuovo l'attenzione della polizia. L'insoddisfazione cresce e Bahta arriva al punto di rubare dei soldi al nonno pur di assicurarsi un passaggio clandestino in Italia.


Rotti definitivamente i rapporti col padre, Bahta si rifugia a casa del cugino ma all'indomani gli ruba l'uniforme ed entra in un bar a minacciare i clienti. Quando anche il piano di fuga in Italia fallisce – con lo scoppio della guerra le coste sono più sorvegliate -, ormai ricercato dalla polizia, Bahta incappa in due barbuti che si offrono di aiutarlo. Conosce così lo scultore Abdu, che lo accoglie come apprendista in casa, cercando di recuperarlo all'osservanza religiosa. Ma Abdu, che si guadagna da vivere vergando calligrafie con i versetti del Corano sulle lapidi tombali, punta in realtà a plagiare Bahta, a farne un aspirante shahîd (martire) da poter utilizzare in un attentato suicida in programma nel Medio oriente o in Iraq.

Insofferente a ogni potere, il ragazzo scappa di nuovo. Ma a ribellarsi, prima di Bahta nei confronti di Abdu, è l'attore (Lotfi Abdelli) nei confronti del regista stesso: ha accettato di fare questo ruolo perché era la storia di un ballerino e ora qualcuno gli dice che la danza viene dal demonio. Così Nouri è costretto a inseguire il suo attore fuori dal set, a rassicurarlo, a tessere una tela di lusinghe e promesse che non è meno insidiosa di quella dello scultore. Lotfi rientra nei ranghi, ma d'ora in avanti la storia di Bahta sarà decostruita dalle incursioni dell'altro film – akhar film è il titolo arabo di Making off -, o per meglio dire costellata dalle fughe di Shukri/Lotfi, fino all'ineluttabile compiersi del suo destino.


Come emerge dall'intervista, in cui Bouzid ci ha raccontato la complessa genesi produttiva, Making off è un film inconcepibile senza l'impalcatura di questa cornice metacritica, che può essere interpretata in qualsiasi modo salvo che come un gesto dettato da narcisismo o da un modernismo di facciata. La sua necessità è ravvisabile in tre snodi ineludibili, diversamente collocabili sul piano del discorso: la tematizzazione della paura – dell'attore ma anche del regista – come cappa che intossica la libertà d'espressione in Tunisia; la strategia efficace dell'esibire il quoziente di rischio dell'intera operazione – nel making off, attore e regista esprimono la consapevolezza del fatto che è un film destinato a scontentare tutti (integralisti, lacché del regime, intellettuali…); l'emersione della dialettica dubbio/plagio che domina il doppio rapporto di forza padre/figlio, quello che lega Bahta a Abdou e quello che intreccia Lotfi a Nouri.

Una volta afferrata la portata della posta in gioco, si comprenderà come i veri momenti forti di Making off si trovano proprio nei tre inserti che disarticolano il corpo del film, come mostrandoci un'operazione a cuore aperto. Con la differenza che qui il bisturi è rappresentato dallo sguardo stesso della mdp, che una volta inciso lo strato superficiale che protegge il racconto, ci mostra la sua infinità fragilità, la dipendenza totale di questo organismo da un'unica fonte d'energia vitale, che coincide con la ribellione sacrificale del protagonista. Bahta/Lotfi è l'uomo di fuoco, anche lui condannato a bruciarsi, come gli angeli stuprati de L'Homme de cendres, l'ex militante sinistrato di Les Sabots en or, il gigolò schizofrenico di Bezness, il sensale castrato di Poupées d'argile, in un rito catartico che mai come questa volta coinvolge il regista stesso, col suo carico di paure e ossessioni irredimibili.


Ma perché questo rito si celebri, perché la sala possa vibrare all'unisono di tensioni irraccontabili, come è successo per la prima proiezione del film alle JCC, è necessario che il doppio gioco tra Bahta/Lotfi e Abdou/Nouri sia senza rete, che il corpo a corpo avvenga qui e ora, colto nella durata di uno sguardo che lavora sulla continuità di ripresa e sulla profondità di campo, sulla centralità di una performance che fa saltare ogni protezione letteraria, rasentando l'oltrepassamento del massimo tabù: l'interpolazione del testo coranico.


Dopo tanti sensibili poeti che ci parlano di un Islam tollerante e plurale, arricchito dalla riflessione dei mistici sufi, radicato nell'immaginario popolare attraverso le storie dei suoi santi, armonioso nella sensuale polifonia della sua produzione musicale, con le avventure di questo nuovo Pierrot le fou, anche lui armato di una cintura di esplosivi, qualcuno ci ricorda finalmente che la cultura araba non è completamente solubile nell'identità musulmana, che il pensiero arabo non è riassorbibile in una o più confessioni. Che più e oltre che gettare ponti con i musulmani moderati, è tempo di ricominciare a tessere la tela dell'unica forma di religio in grado di garantire una fragile piattaforma di comunicazione interculturale. Il pensiero laico.


 


 


a cura di www.cinemafrica.org


 

Making off
Regia: Nouri Bouzid; sceneggiatura: Nouri Bouzid; fotografia: Michel Baudour; montaggio: Karim Hamouda; suono: Michel Ben Saïd; musica: Néjib Charradi; interpreti: Lotfi Abdelli, Lotfi Dziri, Afef Ben Mahmoud, Fatma Ben Saidane, Fouad Litaiem; origine: Tunisia/Francia/Germania, 2006; formato: 35 mm; durata: 120'; produzione: Nouveau Regard/CTV Services (Tunisia), Albares Production (Francia), Filmgalerie 451 (Germania); sito ufficiale:
www.ctv-services.com

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