Non è andato tutto bene. Cronache dalla zona bianca

Siamo sicuri che il sogno della zona bianca sia davvero l’unico futuro possibile? Un diario dalla “nuova normalità” della Sardegna, alla vigilia del ritorno in arancione

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Dopo aver vissuto una realtà imbevuta di cultura catastrofista in cui sul divano ci immaginavamo vincere un’apocalisse zombie –  a cui ci siamo ben più preparati rispetto alla crisi del cambiamento climatico o l’attuale pandemia – abbiamo infine avuto la nostra battaglia personale, combattuta però da casa. E l’abbiamo affrontata, attraverso racconti catartici pensati per documentare e guarire, mirando a una condivisione dei sentimenti.

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É passato un anno, e da reclusi abbiamo vissuto le diatribe intorno all’indossare la mascherina, abbiamo visto le camerette, cucine e saloni di mezza Italia, abbiamo subito la moda della musica sui balconi, gioito per i modi creativi di fare arte homemade nonostante le limitazioni imposte dalla quarantena. Ci siamo stupiti dalla voglia di condivisione, espressa con documentari, film, contenuti social; di quel bisogno incessante di continuare a tramandare, costruire e fare testimonianza del presente, non solo con le immagini, ma con ogni mezzo a propria disposizione che potesse far sperare in un “dopo”; fino al fatidico e incessante “andrà tutto bene”, scritto sui muri, sugli striscioni, sui social. Un messaggio di speranza divenuto ambiguo: adattando al passato una frase scritta dalla rivista Pangea, “non è andato tutto bene perché per alcuni è andata male“.

Ci siamo chiesti se, con la sua immagine terapeutica, il cinema sarebbe stato la cura; abbiamo provato ad autoconvincerci della positività inaspettata di una pandemia che rallentava i tempi frenetici delle nostre vite permettendoci di godere pienamente della soddisfazione creativa, questo attraverso collaborazioni artistiche ideate per guarire – ma soprattutto sopravvivere – che hanno aperto il mondo a diversi scenari che prima sembravano impossibili, come lo smartworking e la didattica a distanza. Ma, sempre citando Pangea, “Perché dovrebbe andare tutto bene? Siamo certi che tutto non deve andare come prima, come se niente fosse. Anzi, nulla sarà come prima”.

Lasciando da parte per un secondo il concetto “ciò che va bene per me non è detto vada bene per te”, e senza dimenticare tutte le categorie di persone a cui è andata male – anziani, disabili, il 98% delle donne che hanno perso il lavoro durante il covid, gli studenti; dopo un anno fatto di ondate, prima e seconda e terza, e di zone colorate, rosse, arancioni, gialle, noi dove siamo finiti? Abbiamo anche solo trovato una destinazione?

Il messaggio “andrà tutto bene” urlato dalle finestre è quasi scomparso, sostituito da uno modernizzato e nuovo di zecca che attualmente prende il nome di “Zona bianca”: l’Olimpo dei colori, il Nirvana di chi vuole uscire, il sogno proibito delle zone rosse.

Viene da chiedersi se sia stata una buona idea veicolare un messaggio di speranza di questo tipo, dal momento che essendo stata la Sardegna la prima e unica zona bianca – almeno al momento – si è creato una sorta di turbinio di rabbia repressa e insulti verso l’isola, probabilmente dettati dall’inconsapevolezza, dal non avere una panoramica sincera sulla situazione. Altro evento che distrugge i pronostici di David Lynch, che vedeva un mondo post pandemia come più gentile e spirituale; ma forse per questo bisognerà aspettare la fine – quella vera.

Quindi che cos’è questa zona bianca? Come ci si arriva – o, per meglio dire, come si diventa zona bianca?

Il criterio pensato per entrarvi è un indice Rt inferiore allo 0,5 con 50 casi su 100.000 abitanti per almeno 21 giorni consecutivi, e dal momento che questa svolta era necessaria per risollevare il morale, non c’è stato abbastanza tempo per verificare veramente se la regione era in grado di reggere questi dati.

La zona bianca è stata posta come un “club privato” esclusivo, atto a fomentare chi non può entrare, a dare un segno, un obiettivo da raggiungere; tutto pur di avere qualcosa in cui sperare.

É intenzione stabilire una quarta area oltre quelle rossa, arancione e gialla, un’area bianca che potrà scattare solo con livelli epidemiologici molto bassi” ha detto il ministro Speranza poco tempo fa. Qualcosa che assomiglia ai meme arrivati sul web usando immagini che vanno da Titanic all’Attacco dei Giganti; “esiste una terra dove non c’è il coprifuoco e non ti arrestano se vai al bar. Una terra di libertà e speranza per tutto il genere umano.”

Ma in Sardegna in realtà il coprifuoco c’è. E ci sono orari per i bar, e c’è il limite per i ristoranti. In Sardegna, in piena zona bianca, non c’è ancora il cinema che ci avevano promesso, non c’è il teatro, non si fa sport. La mascherina continua a essere un accessorio acquisito con contratto vincolante, come chi di dovere aveva rivelato sin dall’inizio, ma nelle comunicazioni del decreto legge del 13 gennaio 2021 si legge che in zona bianca non dovevano applicarsi le misure restrittive previste dai decreti valide per le aree gialle, arancioni e rosse e che invece le attività si svolgono seguendo protocolli specifici.

Le stesse comunicazioni parlavano di ristoranti e bar aperti senza limiti e assicuravano il ritorno alla cultura. Il coprifuoco non è decaduto come dicevano, ma solo ritardato di un’ora e mezza.

É chiaro dunque che questo specifico protocollo ha trasformato l’ipotetica zona bianca, che doveva essere un traguardo, una sorta di premio post-pandemico, e soprattutto rappresentare il futuro, per renderla semplicemente una zona come le altre, col suo colore e le sue restrizioni. Un “futuro” che è già passato, dal momento che da lunedì 22 marzo, dopo 3 settimane sull’Olimpo dei colori, l’isola ritorna arancione.

La zona bianca da essere la presunta fine ci ha solo riportati all’inizio: al suo interno lockdown e zone rosse, e in queste settimane per ognuna di queste che usciva dalla zona rossa ne entrava un’altra. Regione in zona bianca ma per qualche motivo aperta alle zone rosse, con cittadini provenienti da tutta Italia che sono sbarcati per stare nelle seconde case, convinti di essere giunti nella terra dei liberi e così forse contribuendo all’incremento dei contagi. Tutto perché nel corso della pandemia scienza e politica si sono scontrate per il predominio su scelte e decisioni, non tenendo conto anche del benessere psicofisico dei cittadini.

Abbiamo vissuto un’illusione: perché come può la zona bianca essere il futuro se al suo interno ha delle zone rosse? Una discordanza che ci ricorda come siamo ancora in lockdown, e che ancora una volta il “messaggio di resilienza” non ha funzionato.

Se la zona bianca è effettivamente il nostro futuro, che unisce tutti nel raggiungimento di un unico obiettivo, è solo questa la “normalità” che stavamo aspettando? Questo il futuro che ci meritiamo, un protocollo che sa di panem et circenses?

La città respira aria diversa, tra il malinconico e la voglia di ripresa; c’è meno inquietudine, ma non è “normalità” né spensieratezza.

I centri urbani si sono riempiti sensibilmente. I centri commerciali, chiusi nei week-end, accolgono piccole file di persone spaesate e annoiate, che chiedono di aprire anche la domenica “perché altrimenti non sanno dove andare”; il che ci ricorda quanto la mancanza di ogni forma di cultura pubblica sia dannosa non solo per la psiche ma anche come veicolo del contagio, che costringe le persone a frequentare gli stessi luoghi nello stesso momento.

Le vie dei centri propagano assembramento; seppur si cerchi di rispettare le regole, sono zone programmate per assembrare persone, essendoci locali a strettissima distanza l’uno dall’altro. Ed è solo lì che c’è movimento, solo in quelle vie del centro dove la vita c’è sempre stata, anche se categoricamente con la mascherina.

Nella zona bianca tutto dovrebbe aprire gradualmente, ma come dimostrato è più facile uscirne che vedere un cinema aperto – e, tra parentesi, come si poteva pretendere che riaprissero i cinema in una sola regione, quand’è un mercato che si poggia sulla quantità di spettatori? Vorrei vedere la Disney distribuire un film di prossima uscita per una regione soltanto.

Le regole sono ferree, e oltre potersi spostare nella regione e andare a mangiare di corsa una pizza alle otto di sera, non c’è nessun trattamento da sembrare così speciale. 

Sono le 11 di venerdì sera. Un’altra serata, un altro week-end uguale a quello di prima. Verrebbe da chiedersi se é questa la nuova normalità. E quando finisce? Ma noi siamo già arrivati in zona bianca, l’abbiamo vissuta in Sardegna… ma cosa è cambiato realmente nel mio venerdì sera che può fare davvero la differenza?

Nell’incertezza dovuta al fatto di non essere stati preparati, ci chiedevamo la forma e consistenza del nostro futuro, e dal futuro, per adesso, perviene solo il poter prenotare un tavolo da quattro al bar per prendere una birra e consumarla entro le 21:00.

Quando si pensa all’avvenire, al cambiamento, al post-covid, si immagina perlopiù il futuro del lavoro, o il ritornare alla vita sociale fisica e distanziarsi da quella virtuale. La pandemia ha creato scenari urbani sempre più rarefatti: l’isolamento e il distanziamento hanno inciso sulle relazioni interpersonali e sulla routine, ponendo l’uomo contemporaneo in una posizione asociale.

Per molti questo ci ha resi più solitari, si teme che le relazioni prettamente virtuali portino a una preponderante chiusura in sé stessi; cosa smentita dalla zona bianca, un cui i cittadini hanno approfittato di uscire e incontrarsi, anche a dispetto delle norme, e da come in questo “immediato futuro” della zona bianca le cose non siano state diverse dalle zone gialle delle altre città, che già avevano ripreso a vivere. Al limite, la pandemia ci spinge a voler uscire ancora di più, come dimostrato dai centri  di Cagliari e Sassari, che si sono “accesi” immediatamente, ma anche dalle zone limitrofe, che prevedono escursioni e gite, o dalle lunghe passeggiate sul mare, già riprese – nonostante la norma del distanziamento, la cui ombra pesa sempre anche su questi momenti di calma che si vorrebbe fossero normali.

Nonostante le restrizioni, i ristoranti hanno chiamato gente anche a cena, e sebbene una cena “veloce”, affatto tranquilla o leggera a causa delle norme da seguire, la gente ha partecipato comunque perché ne sentiva il bisogno.

In questo ipotetico futuro si sente la mancanza della cultura e degli hobby. Questa “nuova normalità” è quindi sempre lontana dalla vera normalità, ed è assurdo quanto l’arte homemade ci abbia forse salvati molto più della tanto promessa zona bianca, di quel futuro che è già stato presente e passato che non siamo più così inclini ad accettare.

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