#Pesaro55 – Meseta, di Juan Palacios e Trinta lumes, di Diana Toucedo

Meseta di Juan Palacios e Trinta lumes di Diana Toucedo, il primo nella sezione del Concorso e il secondo nella retrospettiva Sguardi sul cinema spagnolo

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Meseta di Juan Palacios e Trinta lumes di Diana Toucedo, il primo nella sezione del Concorso e il secondo nella retrospettiva Sguardi sul cinema spagnolo, sono due film affini, ma non sovrapponibili e nei quali l’originalità del trattamento non è disgiunto da una comune idea utile a rivedere il cinema narrativo senza per forza dovere affrontare il terreno del cinema non fiction in quella palude che, oggi è divenuto il cosiddetto cinema del reale. I due giovani autori intraprendono una propria e autonoma strada e questo va riaffermato perfino al di là di ogni giudizio che coinvolga l’esito dei due film. Va riconosciuto a Palacio e Toucedo una indipendenza programmatica e una autonomia progettuale che ha assegnato una chiara e originale impronta a questi due film.
Juan Palacios, poco più che trentenne, muove i propri interessi artistici tra video sperimentali e cinema dalla forma di diario visivo-saggio. A quest’ultima categoria appartiene Meseta, un film che ha avuto una lunga gestazione e che dopo quattro anni di lavoro ha assunto la sua forma definitiva. Il regista ritorna nei luoghi interni della Spagna, nel paese dove da piccolo trascorreva le vacanze estive. Vivono ancora i suoi nonni e il suo interesse è rivolto verso di loro, ma anche ad altri personaggi del paese, la coppia che alleva pecore e sogna di fare viaggi, il pescatore anziano che racconta le sue vicissitudini su facebook, un duetto di maturi cantanti che ricordano i fasti e i successi del passato, un fotografo che sui set artificiali ricrea scene della tradizione locale. Tutti ancora legati ad un luogo che lentamente si sta spopolando, lasciando che con la gente si cancellino culture e tradizioni non replicabili. Solo due ragazzine animano di una scintilla di gioventù il villaggio e fanno si che si possa ancora declinare al futuro il suo destino.
Palacios radica molto bene il suo film nell’ambiente dal quale lo stesso prende vita ed è

molto attento a non fare si che Meseta diventi un piccolo saggio di saccenteria intellettuale. La sua macchina da presa si adatta alle situazioni e non è mai in una posizione dominante rispetto all’oggetto della sua ripresa. Il cinema diventa interlocutore amichevole e questo restituisce naturalezza e autenticità al lavoro del regista. Meseta non ha intenzioni sociologiche, né nasce da un desiderio di esaltare il ritorno al vecchio borgo, il fine ultimo del suo regista è quello di un racconto di un suo retroterra, del desiderio di indagare su questa propria vita del passato e darle forma oggi, provando a scrutare quanto di quei ricordi sia rimasto. Il film, purtroppo, non può fermare ciò che in termini di abbandono ha preso l’avvio e quindi non può che condurre ad una non felice soluzione. In questo senso la lunga litania dell’anziano abitante che ricorda i nomi di chi ha abbandonato il paese e che se li ripete durante le notti in cui non riesce a prendere sonno, diventa la manifestazione tangibile di questa diaspora, sintetizzando il tema sotteso a questa mappatura umana che Palacios compie avvalendosi delle due belle riprese dall’alto che aprono e chiudono il film, cioè quello di una irrimediabile perdita di quelle culture che hanno caratterizzato e tratteggiato i profili di ogni nazione, di ogni territorio, di ogni provincia e poi di ogni piccolo borgo.
Anche il film di Diana Toucedo, Trinta lumes, non ha particolari intenzioni narrative, ma possiede una inclinazione a dare comunque un indizio che prenda l’avvio da un racconto, è invece. L’operazione della regista di Barcellona non ha riferimenti biografici e pur essendo i suoi intenti in parte affini a quelli di Juan Palacios, il film non ne ricalca la struttura.
Trinta lumes è ambientato in Galizia, luogo particolarmente affascinante per la regista, e tra quelle montagne in un paese non meglio identificato, Alba una ragazzina affascinata dalle storie che girano in paese sulla ricomparsa dei morti, sparisce nel nulla e i luoghi, le montagne, sembrano custodire i segreti di Alba e molti altri che non possono sfuggire e che neppure il cinema può svelare.
Diana Toucedo lavora su un registro più lirico e utilizza il fascino dei luoghi non soltanto per raccontarli nella loro progressiva modificazione stagionale, ma soprattutto ne osserva la grandiosa imponenza con sguardo curioso e affascinato. Anche in questo il film è popolato dai paesani che riaffermano la propria cultura e l’indizio narrativo con al centro Alba e il suo interesse per il mondo dei morti, pur non facendone un film a soggetto, lascia intravedere il desiderio di una narrazione che possa dare forma all’universo immaginario della giovanissima protagonista e anche consegnare allo spettatore il fascino di una terra ancora legata ai miti e ai riti ancestrali dentro i quali è perfino facile scomparire per riapparire chissà dove e quando. In bilico tra i due registri, che non debordano mai verso la pura documentazione, Toucedo sa trovare un sensibile equilibrio e anche nel suo film si coglie una capacità di ibridare i linguaggi e innestare, nel fusto di una tradizione consolidata, il seme di un cinema anomalo che sappia assorbire le storie per una profonda e proficua nuova elaborazione.

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