"Slow Food Story" – "Gastronomia è anche economia politica" – Incontro con Carlo Petrini e Stefano Sardo

Carlo Petrini

Il documentario che racconta la rivoluzione gastronomica avviata da Carlo Petrini negli anni '80, si apre, in una delle prime sequenze, con una delle tante feste tipiche di Bra. L'atmosfera conviviale si trasferisce dallo schermo alla sala anche durante l'incontro, moderato da Lella Costa, amica di vecchia data del Carlìn

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Carlo PetriniSlow Food Story, il documentario di Stefano Sardo che racconta la rivoluzione gastronomica avviata da Carlo Petrini negli anni '80, si apre, in una delle prime sequenze, con una delle tante feste tipiche di Bra. L'atmosfera conviviale si trasferisce dallo schermo alla sala anche dopo la proiezione in anteprima stampa al Cinema Quattro Fontane e nella successiva conferenza, moderata da Lella Costa, amica di vecchia data del Carlìn. È proprio Petrini, insieme al regista, al produttore Nicola Giuliano e a un altro amico storico, Azio Citi, a parlarci della sua rivoluzione e dell'importanza della gastronomia al giorno d'oggi. O almeno della sua potenziale importanza se solo le si dedicasse il giusto spazio.

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Stefano, la tua famiglia ha sempre avuto un forte legame con Petrini e slow food, ma come spesso accade, le famiglie si amano e si odiano al tempo stesso. Fare questo film per te è stato, allora, un gesto d'amore o di vendetta?

Stefano Sardo: Il film mi è stato proposto. Anche se in un certo senso vi ero naturalmente destinato. Sono cresciuto all'interno di slow food, quindi è stato un po' come tornare a casa. Ma, da un certo punto di vista, è scattata in me una sorta di autoresistenza. Un po' come quando si va in analisi. Il problema era condensare una storia lunghissima in poco più di un'ora, ripercorrere un mondo familiare, vedendolo stavolta dal di fuori. Loro a Bra sono sempre stati una minoranza, spesso visti con sospetto, ma non avevo mai capito questa cosa, essendone parte. Invece, da un punto di vista esterno, sono riuscito a cogliere questa storia di costanza, una storia legata al territorio.

Come è avvenuto allora il passaggio, l'accettazione?

Stefano Sardo: Credo che si siano semplicemente arresi all'evidenza. Il primo segno di accettazione è stato Cheese, una rassegna organizzata anni fa dal sindaco di allora. La chiave per raccontare tutto questo è stata l'ironia. Slow Food Story è appunto una storia, ma non volevo fosse troppo seria o pomposa.

Ci sono cose che avresti voluto raccontare e non ci sei riuscito? Cose per cui ti sei autocensurato, per così dire?

Stefano Sardo:
Ci sono molte cose che avrei voluto dire di più, molte che ho filmato e che sono state necessariamente escluse. Da questo punto di vista, è stata fondamentale la collaborazione con Séverine Petit nella preselezione del materiale. È stato davvero complicato e doloroso lasciare fuori delle cose. Ad esempio, mi sarebbe piaciuto mostrare di più del contesto politico, della storia di Bra, ma, da sceneggiatore, so che ogni storia ha il suo equilibrio ed era giusto che fosse così. Sono contento di ciò che ho fatto alla fine.

Nicola, puoi dirci qualcosa di più sulla distribuzione del film?

Nicola Giuliano:
Il film uscirà in varie città, tra cui Roma, Milano, Genova, Pordenone e ovviamente Bra, dove speriamo di tenere il film fino al 2018. Magari possiamo organizzare delle proiezioni del giovedì sera a mezzanotte come il Rocky Horror Picture Show.


E al Sud? Verrà distribuito?


Nicola Giuliano:
No, ancora no.


Perché? È stata una scelta?

Nicola Giuliano: Semplicemente perché le sale chiudono. Sono poche, sempre di meno e con l'arrivo dell'estate chiudono. Far uscire un documentario è sempre un'impresa complessa. Ma è una storia che andava raccontata e che va vista. Il problema è che è sempre più difficile produrre e distribuire un film del genere. Slow Food Story è stato anche alla Berlinale ed è stato comprato da un distributore austriaco, Outlook, e venduto in 6 paesi. Alcuni lo avevano già pre-acquistato, come l'Irlanda, che l'ha co-prodotto. In Italia, invece, verrà trasmesso da Doc3 nei limiti dei palinsesti. Fare questo film è stato per me un gesto necessario in un paese che perde sempre più la memoria. Un gesto di resistenza. Uno sforzo produttivo con un budget quasi degno di un'opera cinematografica. In fondo, il cinema è un po' come lavorare la terra: semini, aspetti e raccogli. Noi seguiamo il progetto fino al mercato dove poi, però, spesso perde valore nella fretta del consumo. Il contrario dell'imprenditorialità.

Stefano SardoCarlo, nel film tu dici che il cibo fa da difesa contro lo sbandamento della vita politica. È vero anche oggi?

Carlo Petrini: Servono nuovi paradigmi e nuove riflessioni. Il cibo ci porta a considerare quanto per anni ci sia stata l'insensatezza di chiedere alla terra sempre di più. C'è sempre meno acqua, tra qualche anno si faranno guerre per averla. Specie genetiche di frutta e verdura scompaiono. Al giorno d'oggi la classe contadina rappresenta solo il 3% del nostro Paese e la maggior parte dei contadini hanno più di 60 anni. C'è sì un ritorno alla terra da parte di alcuni giovani, ma non rappresenta il massimo della prospettive visto che lavorare la terra paga pochissimo. Se si pensa che un litro di latte viene pagato 30 centesimi e poi noi lo acquistiamo per uno, due euro, significa che chi guadagna è chi sta in mezzo. È importante cambiare questo paradigma. Nel nostro Paese non ci si rende conto di sta seduti sopra ciò che permetterebbe la crescita come la cultura e il cibo e si continuano ad affidare ministeri come fossero di serie B. Negli Stati Uniti, invece, il Presidente e la First Lady direttamente si occupano di temi importanti come l'educazione alimentare. Qui si dorme. Ci ritroviamo in un contesto autoreferenziale in cui gastronomia significa Masterchef.

In tutti questi anni, come siete riusciti a divincolarvi da chi ha tentato di carpire i segreti di questa creatura, di strumentalizzarla?

Carlo Petrini: Lavorando nello specifico rispetto a una disciplina come la gastronomia che è già concepita come multidisciplinare, ma che, nel Novecento, è stata relegata in una dimensione autoreferenziale. Gastronomia significa agricoltura, zootecnia, biologia e tanto altro. Savarin scrisse del gusto in “Fisiologia del gusto”, uno dei libri più venduti di sempre, che è tutto ciò che riguarda l'uomo in quanto essere che si nutre. Gastronomia è anche economia politica: in passato si facevano guerre per le terre perché il cibo governa il ventre delle persone. Oggi non ce n'è più bisogno perché le sementi sono proprietà privata. L'80% è, infatti, in mano a 5 multinazionali e quando pure il restante 20% sarà loro, sarà la fine dell'agricoltura. Bisogna cominciare a vedere oltre, non si può rimanere insensibili al land grabbing. La gastronomia è tutto questo, senza mai perdere l'orizzonte del piacere. E non ci si dovrebbe neanche dimenticare che per anni sono state le donne che hanno creato i piatti della gastronomia con poco mentre oggi si vedono solo chef maschi in TV. Ormai la gastronomia in televisione è diventata un circo mediatico che lascia il tempo che trova. È pornografia gastronomica.

Tornando alla distribuzione del film, come mai con tutto questo tripudio gastronomico che regna in TV, un documentario come questo si relega a Doc3?

Nicola Giuliano: Perché tutti hanno detto di no per ragioni di auditel e di share. Regna la legge di quante persone vedono un programma e quanta pubblicità si riesce a vendere. Invece non farebbe male parlare di questi temi in TV.

Carlo Petrini: Non si rendono conto di quanto questo farebbe audience. Hanno stereotipi sorpassati su ciò che il pubblico vuole vedere. Ma prima o poi ci riusciremo…slow, slow.

Nicola Giuliano: Si tratta di un problema di politica culturale. La televisione sta de-alfabetizzando il Paese. Senza neanche un vago disegno dietro. Non si vede mai oltre il proprio naso e l'Italia declina. Al giorno d'oggi, il tasso di analfabetismo funzionale in Italia è del 47%. Il che significa che 47 persone su 100 sanno leggere, ma non capiscono cosa leggono. Secondo all'Italia c'è il Messico con il 41%, ma in paesi come la Svezia il tasso è del 14%. Si tratta di una vera tragedia nazionale, ma rimane fuori dal dibattito politico.

Carlo Petrini e Stefano Sardo alla BerlinalePrima hai usato l'espressione “pornografia alimentare”. Che cosa intendi? E poi, non credi che programmi come Masterchef, nonostante tutto, portino avanti un discorso sui prodotti particolari e locali simile al tuo?

Carlo Petrini: C'è una ricezione nei confronti di questi temi, ma lo si fa in modo sbagliato. La carenza di una visione completa è un handicap in ogni parte del mondo. Pure in Africa. O, per esempio, i giornalisti che mi chiedono ancora “Cosa mangiamo dopo?”. Si tratta di tematiche complesse e sono felice di dire che il 15 maggio prossimo firmerò con il direttore generale della FAO un accordo di collaborazione riconosciuto come elemento distintivo sulle tematiche della nuova agricoltura. In passato, la fame è stata ovviata con l'agricoltura monointensiva. È sbagliato e ora la FAO converge su un'agricoltura famigliare.

Nelle nostre città ci sono sempre più negozi bio o che vendono prodotti a kilometro zero. Come mai si tratta ancora di un fenomeno elitario?

Carlo Petrini: Penso che sarà giocoforza tornare al biologico. Uso di agenti chimici fatto negli ultimi vent'anni è aumentato in maniera esponenziale. Così si perde la fertilità dei suoli. I prezzi alti dei prodotti bio sono dovuti anche alla certificazione che il produttore deve pagare. Altro problema è che non c'è domanda a sufficienza. Ma questa visione di bio come panacea a tutto non funziona. Per esempio, tempo fa ho trovato in un negozio delle pere biologiche, ma erano argentine, quindi il trasporto ha causato un grande danno per l'ambiente. Il locale è molto importante e bisogna valorizzarlo. Negli USA le cose stanno cambiando rispetto all'Europa. C'è una biodiversità produttiva che nasce dal basso.

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