#TFF33 – Cose che verranno, la retrospettiva che c’è

Torino 2015 è stata anche una retrospettiva che ci ha restituito lo sguardo inquieto del cinema sul nostro futuro, in una visione di scenari spaventosi, ma non per questo meno affascinanti.

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La retrospettiva dell’appena concluso Festival di Torino ha proposto, come al solito, spunti di riflessione e suggestioni che vanno al di là del piacere della visione dei singoli film e quale corpus unico, è valutabile nella sua unità utile a restituire un percorso credibile che non resti isolato ad un recupero di visioni d’archivio. La compilazione di un lavoro del genere deve necessariamente consolidarsi quindi a monte nella struttura ragionata del novero dei titoli.
Per il Festival di Torino la rassegna sul cinema del passato è stata sempre un momento non marginale e che ha invece formato la complessiva visione della manifestazione valorizzando il suo assetto entro coordinate più strettamente filologiche piuttosto che legato alla contingente ed urgente novità. Quindi tracce e percorsi che riescano a confermare un’idea di festival che Torino ha sempre difeso che è quella di un corpo mobile, a volte anche in un prezioso fuori tempo, che spinge il suo sguardo oltre la contingenza dell’immediato e si fa inquieto ad esempio nella creativa sezione Onde da una parte e ricerca, al contempo, con la necessaria curiosità, una classicità solida su cui fondare il futuro.

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Il futuro, per l’appunto, è il tema della retrospettiva di questa edizione, il cui evocativo titolo è Le cose verranno. Forse il titolo migliore per una retrospettiva che con l’occhio rivolto al passato, nel senso di un cinema che è già avvenuto, riesce ancora a raccontare storie che potranno solo avvenire. I nostri occhi, ancora, nonostante gli anni che viviamo, restano spalancati di meraviglia e paura come accade ad Alex di A clockwork orange. La paura di un futuro dominato dalla razionalità oppure spoglio di ogni umanità e preda di dominazioni che sopprimano ogni istanza di libertà, perfino quelle che riguardano i sentimenti. Il cinema ha da sempre alimentato questa visione del futuro in una visione sempre inquieta e controversa costruendo scenari spaventosi, ma non per questo meno affascinanti. La retrospettiva del Festival di Torino ha lavorato proprio su questa indubbia profezia del cinema, sulla sua capacità di immaginazione e magnetica fascinazione per il pubblico.

L'ultimo uomo della terra, 1964

L’ultimo uomo della terra, 1964

La funzione del cinema di fantascienza è stata quella di averci abituato a vivere il futuro come un luogo di costante crisi, attraverso una altrettanto costante instabilità per gli esseri umani dominati da regole che siano applicabili ad nuova preistoria o all’affidamento esclusivo ad asettiche intelligenze artificiali a pervasive e anestetizzanti soluzioni tecnologiche. L’interpretazione di questa ansia, che i film ci hanno sempre molto bene rappresentato, ci fa rivolgere lo sguardo al futuro come costante sguardo sull’apocalisse. Tutto quindi sembra trasformarsi in malinconica nostalgia per l’impossibilità di immaginare un futuro come tempo pacificato e pieno di speranza. Il cinema e la letteratura più specializzata hanno da sempre incrociato le paure piuttosto che le speranze ed è difficile dargli torto guardando all’oggi.
La ricchissima retrospettiva di quest’anno (30 film) ha interpretato questa ansia e questa paura, così come, in ordine sparso, avevano fatto i singoli film alla loro uscita. Ma vederli tutti insieme, nel ciclo finale di un’epoca come quella che stiamo vivendo, così come sottolinea la direttrice Emanuela Martini sul Catalogo del festival, restituisce ancora di più il senso di quella “… nuova barbarie tecnologicamente avanzata e spettacolarizzata (Mad Max – Fury Road?) innescati da quell’evento, e dalla consapevolezza di essere arrivati alla fine di un ciclo storico culturale, dalla percezione che in realtà il meccanismo della «fine del mondo» fosse in moto già da molto tempo.”
Il cinema nella sua proposizione di scenari di futuri possibili ha avuto sicuramente qualità

The war game, 1965

The war game, 1965

profetiche e messo sull’avviso circa le soluzioni messianiche ai mali generali del mondo. Uno sguardo anche appena superficiale ai titoli raccolti e organizzati proposti dal festival confermano largamente gli assunti. Dalle previsioni dello sconosciuto Peter Watkins, regista inglese degli anni sessanta, dimenticato e qui recuperato attraverso i suoi due film forse più famosi Privilege e The war game (1965). Il primo, in forma grottesca profetizza l’uso dei media e il pensiero unico che domina il mondo; il secondo sembra anticipare una visione tutta televisiva della guerra in un film-reportage che non fa sconti in fatto di estremizzazione dello sguardo sul conflitto bellico tanto da essere stato ostracizzato dalla stessa BBC che l’aveva commissionato. Di contro, il futuro impossibile di Ridley Scott, eterna misura quasi kubrickiana di un futuro immanente, cinema con il quale fare i conti che travalica ogni essenza della storia e mette in gioco i sentimenti così come quella paura di un vuoto che li assorba completamente. Blade runner (1982) è il cinema umanissimo che guarda, in un mondo in cui ormai l’origine non è più distinguibile e identificabile, all’umanità come elemento che non sembra più appartenere solo all’uomo, ma diventa dominio dell’alieno che la vive allo stesso modo dell’uomo in un tentativo di umanità allargata che ricorda gli scenari di Clifford Simak in Anni senza fine.

Il seme dell'uomo. 1969

Il seme dell’uomo. 1969

Il cinema di fantascienza si fa quindi scenario implacabile per un futuro senza speranza. Che poi sono le stesse interpretazioni che adottano Marco Ferreri e Ubaldo Ragona, rispettivamente in Il seme dell’uomo (1969) e L’ultimo uomo della terra (1964). Accade che questi film davvero sembra che guardino la terra con l’occhio del cinema e lo stesso accade nel filosofico e misterioso Stalker (1980) di Andrej Tarkovskij o nell’angoscioso Soylent green (1973) di Richard Fleischer, film nei quali il cinema sembra preconizzare una lenta catastrofe determinata da una radicale mutazione genetica della vita sulla terra attraverso una quanto mai malinconica e inguaribile presa di coscienza. Poi le stilizzazioni esistenziali di Jean-Luc Godard con Alphaville (1965) e quelle di François Truffaut con Fahrenheit 451 (1966), l’ancora grottesca riflessione amara di Stanley Kubrick in Dr. Strangelove (1964) o la sua analisi di una violenza senza causa in A clockwork orange (1971), o quella che nasce dall’istinto di sopravvivenza in Mad

Stalker, 1980

Stalker, 1980

Max (1979) di George Miller, lo sguardo pessimista di David Cronenberg che sintetizza, insieme a James Ballard, il senso della nuova esistenza che si materializza nella nuova carne in Crash (1996) e il futuro caotico di Terry Gilliam in Brazil (1985) o, ancora, lo racconto estremo di Katherine Bigelow che sembra sbilanciarsi, dalla soglia del 2000, per gettare uno sguardo ancora una volta profetico sul secolo a venire attraverso liquidità allucinogene in quel film forse eccessivo, ma inquietante e magnetico che è Strange days (1995).
Un quadro complesso e sicuramente incompleto che guarda alla fantascienza del passato non come un reperto, ma qualcosa di ancora vivo che non è solo la memoria di spettatori più attempati, ma è l’attualità degli anni 10 del secolo in corso che sembra riflettersi dentro le storie di questo cinema così azzardato, così estremo come oggi, a volte, non è più possibile immaginare. Un cinema che è stato un trampolino verso il futuro e oggi non è ancora una fotografia del passato. Sono tutte cose che verranno. Il cinema corre più veloce della storia, tutto deve ancora avvenire, il futuro è domani e il cinema lo ha già raccontato.

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