#TFF33 –Terence Davies, voce distante, sempre presente (2° parte)

Dopo l’esordio il cinema di Terence Davies avrebbe proseguito il suo cammino rielaborando la memoria personale anche come ritratto della coscienza collettiva di ogni comunità.

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La memoria di una famiglia e la sua storia sono le depositarie della coscienza collettiva e sono anche all’origine delle cicatrici collettive…
Terence Davies

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L’opera di Davies trae elementi di ispirazione dal solitario pessimismo connaturato al suo pensiero e che quindi ne pervade l’opera. Il suo cinema che si articola sempre dentro lo sviluppo di storie in cui si esaltano la rinuncia e il sacrificio hanno per protagonisti i bambini o i personaggi femminili entrambi caratterizzati da una sensibilità più affine alle corde di Davies.
Voci lontane, sempre presenti è il film del 1988 con il quale il regista ha continuato questa sua rievocazione del passato nella Liverpool degli anni 50/60. L’evocativo titolo, che sembra segnare per sempre il cinema di Davies, riecheggia l’ondulato andamento della memoria, non necessariamente pacificatoria, ma sicuramente utile a spiegare il presente che ribolle continuamente nei film dell’autore inglese. I festeggiamenti natalizi e le violenze paterne, funerali, matrimoni e battesimi, corrono sempre sul filo di una memoria interrotta e disordinata e contrappuntata dal canto che sembra spezzare le tensioni all’insegna di una riconquistata solidarietà familiare. Nel 1992 la ricerca di Davies è proseguita con Il

Voci distanti, sempre presenti, 1988

Voci distanti, sempre presenti, 1988

lungo giorno finisce. Il suo percorso autobiografico continua ad essere connotato da una coerenza di intenti non è facilmente riscontrabile nel cinema contemporaneo. Anche qui la storia è quella di un ragazzino, Bud evidentemente lontano dal comune sentire dei suoi coetanei. Appassionato di cinema e di musica percepisce la distanza e l’emarginazione subdola che lo sospinge ad un isolamento non desiderato. Non è un caso che egli vada al cinema solo se trova qualcuno che lo accompagni sia pure un passante occasionale. Il film è strettamente legato al precedente costituendo con la trilogia un compendio autobiografico sufficiente a ricostruire non solo i tratti della poetica del regista, ma anche la struttura, mai romantica, quanto piuttosto affidata al corso della memoria con evidenti operazioni di sottrazione narrativa. Una struttura del racconto, quindi, che solo apparentemente appartiene alla forma narrativa classica e che invece istituisce, attraverso i salti e le condensazioni della memoria, una autonoma prospettiva e una distinta struttura

Il lungo giorno finisce, 1992

Il lungo giorno finisce, 1992

narrativa in cui le amplificazioni del ricordo e la fatica di un passato non del tutto piacevole (Non sono affatto contento di essere gay, non provo alcun orgoglio omosessuale. Ritengo una disgrazia essere fuori dalla norma, un peso che ha condizionato tutta la mia vita …) corrispondono al clima sonoro, visivo e d’ambiente in cui i questi suoi film sono immersi. Il cinema di Davies quindi tende a costruire il ritratto di una coscienza collettiva guardata attraverso la propria stessa autobiografia. In questo senso non è dunque il banale racconto della sua vita per immagini, né può essere ricondotto ad un esorcismo utile ad allontanare quel tempo. È qualcosa di più ed è anche qualcosa di diverso. È un cinema che rappresenta il passato come costante forma poetica di sguardo sul presente.

Il filo della memoria non sembra interrompersi con il film successivo Serenata alla luna

La casa della gioia, 2000

La casa della gioia, 2000

(1995). Ma questa volta il protagonista è David che non è un alter ego del regista. Nel sud degli Stati Uniti, in Georgia, David consola la sua vita afflitta da un padre manesco con le canzoni della zia Mae (Geena Rowlands) un personaggio controcorrente e cantante sul viale del tramonto. Ancora una storia pienamente nelle corde del regista inglese in cui la rievocazione del passato si fonda, come sempre, sul cruciale tempo dell’adolescenza e nel conforto di personaggi femminili assai vicini al suo sentire.
Con La casa della gioia (2000) Davies apre la stagione delle sue (anti)eroine femminili, proseguita con Il profondo mare azzurro (2011) e per adesso completato con Sunset song (2015).
I personaggi femminili di Davies pagano sempre il prezzo delle proprie scelte. Il loro tormento

Il profondo mare azzurro, 2011

Il profondo mare azzurro, 2011

nasce dall’essere fuori tempo rispetto al ritmo del mondo intorno. In questo il senso sembra essere perfetto il testo di Edith Wharton dal cui romanzo Davies ha tratto La casa della gioia. Lily, la protagonista che appartiene alla società altolocata della New York fine ottocento, finisce con l’accettare la sua lenta caduta verso gli strati più bassi della scala sociale la cui causa è da ricercare nel rifiuto di sistemare la propria vita con ricchi uomini verso i quali non prova alcun sentimento. La zia la disereda e le si apre lo spettro della povertà. Hester Collyer è il personaggio protagonista di Il profondo mare azzurro e anche lei è divisa tra il marito rappresentante dell’Alta Corte e un amore profondo per un ex pilota della RAF. Durante una notte tormentata dai ricordi sopravvive ad un tentativo di suicidio. Chris, la protagonista di Sunset song ritrova nella rinuncia all’insegnamento per badare alla fattoria del padre violento e manesco, che muore qualche anno dopo la madre, un nuovo senso alla vita. Vengono l’amore, il matrimonio e i figli in un profluvio di narrazione in cui Davies sembra condurre un’operazione speculare rispetto a quella di Via col vento, la dove la speranza finisce con la fine dell’amore e nessun altro giorno sarà diverso dal precedente. Chris, in Sunset song, guarda alla vita dalla sua fattoria in Scozia vivendo i suoi sentimenti e la sua parabola umana nel

piccolo mondo che resta nel suo sguardo, nella malinconia di ciò che non è stata capace di

Sunset song, 2015

Sunset song, 2015

realizzare. In questo sgomento esistenziale si riconosce tutta la poetica matura di Terence Davies.
Nel 2008 Davies, attraverso il recupero di preziosi materiali d’epoca in una rielaborazione in cui si serve anche delle musiche realizza un film sulla sua città e prende forma Of time and the City. Un omaggio a Liverpool, visionaria elegia poetica che ripercorre le trasformazioni della città e nel contempo contribuisce a confermare la poetica di Davies come custode e narratore di una memoria che non si limita alla propria vita personale, ma il cui occhio indaga sul tempo come forma di vita collettiva.

Terence Davies resta quindi un narratore del tempo, passato e contemporaneo, un osservatore dei mutamenti, un sensibilissimo poeta per immagini che ha bisogno di attingere alla propria storia per essere in grado di raccontare i sentimenti più segreti dei suoi personaggi.

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