#TFF33 –Terence Davies voce distante, sempre presente

Il Festival di Torino 2015 ha consegnato a Terence Davies il Gran Premio Torino con una retrospettiva dei suoi film per un autore che è sempre stato in disparte nel panorama del cinema europeo.

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Sono molto orgogliosa di te perché hai avuto il coraggio di dire la verità.
La madre del regista dopo la visione di Voci distanti, sempre presenti

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Il Festival di Torino 2015 ha insignito Terence Davies del Gran Premio Torino e con l’occasione è stata dedicata al regista inglese una bella retrospettiva che ha regalato agli spettatori anche la visione del suo ultimo faticoso film (18 anni per realizzarlo). Un cinema silente e dimesso forse, ma che si radica con forza e attraverso il silenzio lavoro della memoria, nel nostro immaginario.
Come buona parte degli spettatori italiani abbiamo scoperto il cinema di Terence Davies sul finire degli anni ’80. Il primo film che arrivò nelle sale fu Voci distanti, sempre presenti. Cineclub e circuiti culturali in genere andarono a nozze con un film tanto evocativo nel titolo quanto nel suo contenuto. Terence Davies divenne oggetto di culto e le fiorenti riviste cartacee specializzate dell’epoca cominciarono a riscoprire la sua esile produzione precedente, composta nell’altrettanto evocativo titolo di Terence Davies Trilogy, un contenitore che ricomprendeva Children, Madonna and the child e Death and Transfiguration. I ricordi della sua infanzia, divisa tra imposizioni di regole religiose e disciplina scolastica, erano organizzati secondo una struttura non strettamente narrativa, quanto piuttosto legata da una logicità sottoposta alle regole di un naturale disordine del ricordo. Il tempo e la memoria sono le ossessioni di Davies che spesso, come accade nell’ultimo film, rielabora i

concetti a lui cari trasformandoli in materia narrativa. Il concetto di memoria personale si traduce in memoria del tempo come impronta che dal singolo investe la collettività. Davies racconta quindi il suo passato, ma anche quello che appartiene ad una intera comunità, recuperando con sensibilità assoluta i tratti di un’epica del minimale senza alcuna stanca banalità.
Cresciuto negli anni dell’immediato secondo dopoguerra nella città operaia e complicata di Liverpool, Davies, nonostante le difficoltà, tutte raccontate nei suoi primi film, forse non ha mai agito in rivolta contro le regole sociali. Se c’è stata una ribellione è stata soprattutto sottilmente diretta a combattere i pregiudizi e le convenzioni sociali. Il suo cinema, pur assumendo i toni personali, infatti, contiene i segni e le aspirazioni per diventare oggetto di una memoria collettiva. I temi dei suoi film e i suoi personaggi trovano nella accettazione della sconfitta il senso della loro stessa esistenza, ma il loro sacrificio va ascritto a responsabilità sociali più generali e al vincolo di regole punitive ed escludenti.

Terence Davies Trilogy, 1976

Terence Davies Trilogy, 1976

Arriva come una deflagrante sorpresa The Terence Davies Trilogy (1976) quasi una autobiografia mascherata attraverso il personaggio di Robert Tucker che vediamo crescere, diventare maturo e invecchiare nel corso dei tre brevi film (46’, 30’ e 26’) che compongono l’opera. Davies racconta dell’emarginazione a scuola e delle sue prime pulsioni omosessuali, dell’inesistente rapporto con i propri colleghi di lavoro e della vecchiaia del suo personaggio che nell’ultimo film vediamo accompagnare al cimitero il feretro della madre. Fantasia e autobiografia scompongono il reale e in un bianco e nero d’altri tempi. Lo stile assolutamente rigoroso che avrebbe segnato il suo cinema anche nel futuro qui si differenzia in una sorta di successiva fluidità man mano che il

Terence Davies Trilogy, The child

Terence Davies Trilogy, The child

personaggio di Tucker cresce e invecchia. Non vi è dubbio che l’opera di esordio del regista inglese, realizzata in età non giovanissima, sia connaturata da una cupezza che fa da sfondo alla costante idea della fine della vita che come una costante si affaccia secondo atteggiarsi differenti in ciascuno dei tre brevi film.
Sarebbe stato l’esordio e poi per un lungo tempo il silenzio, caratteristica frequente nella vita artistica del regista. Il suo sarebbe stato un cinema distante e sradicato da ogni influenza artistica contemporanea e la rielaborazione della propria vita attraverso il cinema non avrebbe mai ricercato le complicità dello spettatore, quanto piuttosto messo in atto la volontà di trasferire nei film la propria vita interiore, quasi come una consegna testamentaria. Senza rivalse e senza altra pretesa che quella di dare corpo e immagine al proprio ricordo.

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