The Penitent. A Rational Man, di Luca Barbareschi
Modello di un cinema mai così distante dall’avere un’anima, un vano tentativo di restituire uno sguardo sporco sul tema dell’opinione scorretta. Con un delirante finale. VENEZIA80. Fuori Concorso.
Uno psicologo newyorkese è accusato di aver spinto con un commento omofobo un suo ex paziente a commettere una strage in un liceo. Appare rinchiuso nella paralisi della propria pena, sull’orlo di una crisi nevrotica che lentamente lo sta trascinando verso il fondo mediatico. Ma la fluidità, l’astrazione degli spazi che hanno contraddistinto l’affascinante quanto ingannevole prologo di The Penitent. A Rational Man ci abbandona immediatamente, lasciando libero movimento ad un’opera schiava del proprio e sadico piacere digressivo. Perché in fondo il film di Barbareschi è un vano tentativo di restituire uno sguardo sporco sul tema dell’opinione scorretta, della sempre più dilagante politica della cancellazione, ma con una metodica che lascia dietro di sé infinite perplessità stilistiche.
Dalla straniante staticità della macchina da presa sino ad un montaggio ignaro dei tagli, The Penitent è letteralmente il prigioniero modello di un cinema mai così distante dall’avere un’anima, dall’avere l’intelligenza e la capacità di donare ai propri personaggi l’ossigeno necessario per sopravvivere in questo quadratissimo sistema di interminabili digressioni sulla natura della propria battaglia. Gli spazi inavvertitamente si riducono, si sbriciolano, dissolti da questi dialoghi che non arrivano mai al bandolo della matassa, alla risoluzione di un caso mediatico divenuto col tempo il delirio di una personalità che non contempla l’idea di sparire ma neanche quella di redimersi, creando un cortocircuito linguistico ad un certo punto impossibile da disinnescare. Come nel suo delirante finale, non resta altro che arrendersi all’idea di accettare l’assurda colpevolezza di immagini ingabbiate da uno degli esempi più sbagliati di narrazione odierna del castigo.