Uno sguardo alla terra. Peter Marcias per #SentieriSelvaggi30

Sentieri Selvaggi incontra Peter Marcias, autore di Uno sguardo alla terra, film documentario nato da un lavoro di Fiorenzo Serra, espediente per ragionare delle modalità del cinema del reale

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L’incontro del 4 maggio scorso degli studenti della Scuola di Cinema Sentieri Selvaggi con Peter Marcias sul suo ultimo film, Uno sguardo alla Terra, si apre con una rivelazione di come il materiale utilizzato sia soltanto una parte di quello girato, e dunque come il progetto debba considerarsi tutt’ora work in progress e destinato ad avere un seguito. Nei 3-4 livelli che si intersecano nella struttura filmica, repertorio, riprese, interviste, il compito più difficile per il regista era sicuramente quello di provare a trovare una soluzione che potesse garantire un equilibrio. Prendendo spunto dallo splendido documentario antropologico di Fiorenzo Serra, anno 1965, L’ultimo pugno di terra, commissionato dalla Regione Sardegna, poi accantonato dalla stessa perché ritenuto poco accattivante per attirare turisti, anzi fosse controproducente, Marcias ha tentato di costruire un legame con gli autori del Cinema del Reale (Vincenzo Marra, Wang Bing, Brillante Mendoza, Claire Simon, José Luis Guerin, Mehrdad Oskouei, Tomer Heymann, Sahraa Karimi) sparsi in varie parti del globo. Ne ha ricavato delle interviste, alle quali ha aggiunto immagini inedite della Sardegna girate da lui stesso.

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“Parto dal presupposto ci voglia grande serietà nel manovrare l’opera di un’altra persona, di un altro regista. Qui noi col montatore, la produzione, ma anche con l’Istituto Luce abbiamo pensato di non invadere il film con delle musiche che non fossero quelle originali, ho preso dei blocchi e tenuto tutto. Sto lavorando da parecchio tempo sul repertorio, sul found footage ad esempio, su dei materiali fatti tempo prima e poi riutilizzati. Ci vuole molto rispetto nel toccare materiali di altre persone. Questa è stata forse la chiave di equilibrio, perché avrei potuto musicarlo e fare tanto altro su quel materiale, invece l’ho tenuto com’era, come una proiezione in atto. Volevo fare questo film, partire da quelle immagini, volevo far vedere la mia terra, far vedere questo documentario che per anni è stato chiuso all’interno di una cassa, bloccato”.

L’ultimo pugno di terra (1965) – Fiorenzo Serra

Un prodotto, il film di Serra, che dunque fu censurato dai suoi stessi produttori. L’autore, abituato a girare dei piccoli documentari su commissione, alle prese con il lungometraggio, confezionò un’opera verista, che mal si addiceva ad essere utilizzata come strumento promozionale, e tantomeno a catturare l’attenzione del governo centrale per ottenere un maggiore dirottamento di fondi.

“È stato molto difficile partire da questo per arrivare poi a parlare con i registi, che all’inizio non capivano, poi la discussione si è ampliata, e tutto ha funzionato. Però l’equilibrio è venuto dopo. È stato difficile innanzitutto per la questione della lingua, volevo che ogni regista parlasse nella propria lingua, lo avevo deciso dal primo giorno di riprese, loro sono più forti, riescono ad argomentare meglio se hanno la padronanza. L’alternativa sarebbe stata parlare in Inglese, però mi sono detto che parlando ognuno nella propria lingua, esce fuori davvero la propria idea di cinema. Sono insomma andato per sensazione, per istinto, molte cose le ho sbagliate e non le ho montate, però è stata sempre una ricerca, uno studio per capire come lavorano questi illustri colleghi, mi sono messo nella parte dello spettatore”.

Uno sguardo alla terra è soprattutto un’opera teorica nella quale si ragiona del modo stesso di realizzare un documentario, affrontando le tematiche della messinscena del lavoro che del genere sono uno dei settori cardine. Essendo dipendente dall’incontro e dal ragionamento su differenti modalità di rappresentazione del reale, il risultato risente della costruzione di un rapporto fiduciario con gli interlocutori e dal loro diverso grado di coinvolgimento e partecipazione.

“Ho detto: vado, intervisto e giro, altrimenti correvo il rischio si rivelasse un film che non si poteva fare. Coinvolgere documentaristi di questa portata dislocati in tutto il mondo non era facilissimo. L’idea era di farli venire in Sardegna, poi ho dovuto trovare un’altra soluzione, suggerita anche da loro, sul momento, è tutto venuto un po’ per caso, le decisioni andavano prese velocemente, anche perché loro non avevano molto tempo disponibile. Un regista è come un pensatore o un filosofo, che comunque si deve trovare in qualsiasi posto, deve riadattare quello che vede, non necessariamente deve stare nel proprio luogo. Poi non la pensano tutti così, Brilliante Mendoza ad esempio è interessato a raccontare il popolo filippino, ed anche se gira a Barcellona comunque racconta il popolo filippino. Ho anche scoperto che non è un cinefilo. Mi ha invitato mentre stava girando, lui gira con una telecamera ed un fonico, si nutre molto di realtà, è piombato in questo centro commerciale a Manila ed ha girato, ha messo il protagonista imboscato in questa specie di Chinatown. Il rapporto con i registi è diventato forte nel momento in cui è partita l’intervista, siamo stati insieme, abbiamo chiacchierato”.

UNO SGUARDO ALLA TERRA. Peter Marcias per #SentieriSelvaggi30 (riprese di Luca Capuano e Riccardo Luisi, montaggio di Luca Capuano) from sentieriselvaggi30 on Vimeo.

 

L’ambizioso progetto di Peter Marcias parte da lontanissimo, da uno studio minuzioso del lavoro di Fiorenzo Serra, sul quale aveva intenzione di girare documentario, alla Cineteca di Cagliari, di oltre dieci anni prima. Nell’occasione si fece proiettare tutti i circa 80 lavori di Serra, tutti in pellicola, girati quasi esclusivamente su commissione, ma per i quali faceva ricorso a dei metodi di ben provata natura autoriale. Quei cortometraggi, che avevano al centro una terra, la Sardegna, sono adesso dei documenti preziosi per delineare un affresco dell’epoca davvero eccezionale, nel suo ragionare su tanti temi, le donne, il lavoro, la periferia nell’osmotico, complicato, rapporto con il centro. Alla doverosa documentazione attraverso gli anni, guardando ad un passato più recente, e compreso nella effettiva fase produttiva, le maggiori difficoltà sono nate dal dover rintracciare i registi, intervistarli, quindi trascrivere tutto ed adattarlo dopo il lavoro di sbobinatura.

Marcias con Wang Bing

Credo che bisogna stare sempre sintonizzati e molto attenti, quando si fa un documentario e si gira, bisogna avere in testa e prevedere tantissime cose, bisogna essere pronti anche a superare quello che crediamo e trovare un’altra soluzione, bisogna essere molto concentrati. È una sorta di multi-traccia, se non fai in quel modo perdi il filo del documentario, quello che ti stanno dicendo devi collegarlo a quello che avevi immaginato”. 

Marcias fa parte di una generazione di registi, una sorta di Nouvelle Vague sarda, che comprende nomi come Salvatore Mereu, Enrico Pau, Bonifacio Angius, per citarne alcuni, tornati alla loro storia, a raccontare la Sardegna in modo arcaico, potente, adoperando modelli di racconto diversi come modalità ma dove il dato antropologico trova un posto centrale. Un’attenzione che va anche al di là della scena sarda, l’idea di cinema antropologico, considerato per addetti ai lavori o studiosi, che sta diventando spunto centrale per il cinema di finzione.

“Un po’ è riconducibile al fatto di essere isolani, al credere che tutto finisca prima dell’acqua, abbiamo questo sentimento per il territorio che sentiamo nostro, una grande voglia di raccontarlo, uno tende ad essere più possessivo per una cosa che ha dei confini ben delimitati. Si ha tanto tempo per pensare, quindi si sta più attenti alla terra. Nell’ultimo film di Laura Bispuri lei è riuscita grossomodo ad avvicinarsi a quella terra che intendiamo noi, poi non so se i sardi abbiano ammirato quel tono, si tratta comunque di tono, di sensibilità”.

Il regista ha un grande amore per i film e la passione per i Festival, che ritiene posti utili da frequentare per tenere accesa la curiosità, e soprattutto che offrono la possibilità di incontrare gli autori.

“Mi sono accorto di essere invaghito, innamorato di sapere di più del cinema. Ho girato diversi documentari sul cinema, uno su Liliana Cavani, uno su Piera degli Esposti, ed altri… Mi piace capire i segreti del cinema, questa è una vecchia passione, dunque, non so se si scontra con l’autenticità. Quando poi faccio film di finzione mi comporto in altro modo, cerco di lavorare di più con gli attori, cambio totalmente, sono più invaghito del mestiere del cinema. Quando un regista è autentico il film può apparire più autentico”.

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