VENEZIA 68 – "Pasta nera", di Alessandro Piva (Controcampo Italiano)

Pasta nera
Alessandro Piva con il suo Pasta Nera si inserisce (forse troppo…) nella collaudata tradizione del documentario "storico" italiano. Partendo dalla bellissima avventura di ben 70.000 bambini del Sud che nel secondo dopoguerra, con la nascente Repubblica e in un Paese allo stremo delle forze morali ed economiche, vengono ospitati da famiglie del Nord (soprattutto Emilia Romagna) per crescere senza l’assillo incombente della Fame

 

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Pasta neraLa guerra paradossalmente produce i suoi peggiori disastri solo dopo essere terminata. Quando le bombe smettono di cadere, lasciando a terra quella scia di fame e distruzione che crea lunghi e dolorosi echi di dolore. E il cinema italiano ha da sempre intercettato al meglio questi echi, inseguendo una sua forte radice (neo)realista che ha costruito continui ponti tra realtà e scena. Anche nel campo del documentario la matrice fortemente “storica” del nostro cinema si è sempre avvertita (pensiamo al maestro Vittorio De Seta) e Alessandro Piva con il suo Pasta Nera si inserisce perfettamente in questo solco tradizionale già ampiamente tracciato. Una “storia” italiana quindi: quella di ben 70.000 bambini del Sud che nel secondo dopoguerra, con la nascente Repubblica e in un Paese allo stremo delle forze morali ed economiche, vengono ospitati per un po’ di tempo da famiglie del Nord (soprattutto Emilia Romagna) per crescere senza l’assillo mortifero della fame. E Piva non ha nessuna intenzione di frapporre la sua firma registica all'interno di queste testimonianze, lasciando la scena solo ai materiali d’archivio e alle interviste degli allora bambini che ricordano con commozione ed affetto quel lontano periodo così imporatante per la loro formazione. Si parla di un’Italia ferita insomma, di un’Italia in bianco e nero dalla quale si vuole scappare per trovare il colore al Nord, come dice uno di loro. E si doveva persino fare i conti con le paure inculcate dalla superstizione (i comusti mangiatori di bambini in primis), che terrorizzavano questi piccoli e coraggiosi migranti. Ma tutte le paure, anche i peggiori mostri dell’infanzia, vengono sempre superati da uno spettro più grande: quello della fame. L’argomento principe delle loro testimonianze, anche sessant’anni dopo, non è certo il clima politico/sociale dell’epoca o l’economia reale di un’Italia in ginocchio, ma resta sempre quello del cibo e del ricordo delle “cose da mangiare”. E allora il treno che dal Sud li portò in Emilia diventa un mezzo che viaggia su binari del tempo e della speranza.  Una speranza di crescere, come persone e comunità. Ora, è inevitabile che un documentario con questa impostazione così “tradizionale” e scolastica sconti un po’ troppo i gap di natura strettamente formale. La formula collaudatissima intervista/materiale d’archivio/intervista risulta forse eccessivamente datata, certo, ma comunque ancora abbastanza efficace nel costruire il suo mosaico di piccole storie umane. Non ci resta quindi che andare alla ricerca delle motivazioni originarie del progetto, che sono essenzialmente quelle di rintracciare una Italia positiva e “capace” da interfacciare al nostro presente, tralasciando (forse troppo) gli aspetti puramente cinematografici ed estetici del linguaggio/documentario. Ma tra borse valori che crollano, governi in bilico e problemi legati alla "fame" che tornano improvvisamente d'attualità, un film come Pasta Nera diventa curiosamente attuale, concedendo un sano e salutare sospiro di sollievo ad un Italia che sembra esser tornata veramente un Paese in bianco e nero…  

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