VENEZIA 69 – “Outrage Beyond”, di Takeshi Kitano (Concorso)


Fine dell’epica kitaniana? Morte del grande disegno autoriale del suo cinema più etereo? Sostanzialmente, quello di Kitano è oramai un cinema sfregiato, come la faccia di Kimura, il piccolo boss tra i personaggi secondari del primo Outrage, qui magnificamente innalzato a coprotagonista insieme a Kataoka, lo sbirro doppiogiochista che era già la figura più dirompente del prototipo. Il campo è già sepolto dai cadaveri, e non resta che farne la conta

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Beyond Kitano. Se il cartello del titolo del primo Outrage compariva sull’infinita e mortifera sfilata delle limousine nere che lasciavano la villa del boss dopo il summit degli yakuza, stavolta la scritta finisce sopra una sequenza di ritrovamento di un’altra grossa automobile finita in mare con due cadaveri all’interno, mentre viene tirata su da una gru della polizia. Come a dire: non è nemmeno più il tempo di essiccare la parata del rituale malavitoso svuotato di senso e spinto da Kitano alle estreme conseguenze del proprio paradosso – stavolta il campo è già sepolto dai cadaveri, e non resta che farne la conta (in più di un’occasione il film arriverà a sparatoria già conclusa, a mostrarci giusto la strage dei corpi crivellati, con gli echi degli spari che si spengono fuoricampo). La nuova yakuza non ha nemmeno i tatuaggi giusti.
E non è allora un caso che nei due Outrage a Beat Takeshi non venga più lasciata l’opportunità, irrinunciabile negli altri yakuza movie del cineasta, di andare consapevolmente a morire in un ultimo iconoclasta gesto di sacrificio estremo: infatti, il primo film si chiudeva vertiginosamente sulla decisione inedita di Kitano di arrendersi invece di continuare a combattere sino all’ultimo (coprodotto dalla Warner Bros, Outrage è stato uno dei più grandi successi commerciali dell’autore in patria, e uno dei film più visti della stagione in cui fu distribuito), anche se la resa pareva poi non averlo salvato nemmeno stavolta dall’ineluttabile destino (perché vogliono tutti sempre mirare alla mia pancia?).
Resuscitato per il sequel (girava voce che fossi morto…nessuno si ricorderà più di me), il suo Otomo dimostrerà d’essersi fatto furbo anche in questa occasione, accettando la pistola che gli viene offerta per lo scontro finale contro l’intera famiglia Hanabishi, ma optando poi per un utilizzo decisamente meno eroico e meno suicida dell’arma.

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E allora? Fine dell’epica kitaniana? Morte del grande disegno autoriale del suo cinema più etereo? Sostanzialmente, quello di Kitano è oramai un cinema sfregiato, come la faccia di Kimura, il piccolo boss tra i personaggi secondari del primo Outrage, qui magnificamente innalzato a coprotagonista insieme a Kataoka, lo sbirro doppiogiochista che era già la figura più dirompente del prototipo, e ora assurto a livello di potente maschera allegorica (gli yakuza hanno più codice morale della polizia…), vero protagonista e artefice dei sotterfugi e dei trabocchetti tra famiglie che animano lo script.
Mentre il film affonda e acuisce le efferatezze del primo episodio (l’imprescindibile dito automozzato in pubblico in segno di pentimento questa volta viene strappato via a morsi) in una messinscena sempre più funerea e desolata, dall’altro lato si dimostra così il ritratto disgustato di una umanità che per Kitano si fa sempre più biliosamente oltraggiosa.
Il massimo della compassione è l’altarino con i pacchetti di sigarette offerto alla memoria dei due teppistelli adolescenti che sembrano usciti da Boiling Point (il baseball…), che sono le uniche due figure con cui Otomo pare voler intrecciare un seppur minimo rapporto di terrena sopportazione.
Per tutti gli altri, la reazione resta quella leggendaria smorfia di singhiozzante sghignazzo, sempre più impressa indelebile sul volto di Kitano con una fissità di sfida perenne e abissale, tremenda solitudine: Certo che non voglio mancarti di rispetto, co*$%#ne!

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