#Venezia73 – Dark night, di Tim Sutton
Potente e angoscioso, è il racconto libero dell’antefatto del massacro che, nel 2012, ad Aurora, durante la proiezione di The Dark Knight Rises, di Christopher Nolan, coinvolse 70 persone.
Presentato fuori concorso nella categoria Orizzonti, Dark night di Tim Sutton, fa il suo ingresso a pieno titolo tra le sorprese della 73esima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Potente e angoscioso, è il racconto libero dell’antefatto del massacro che, nel 2012, ad Aurora, durante la proiezione di The Dark Knight Rises, di Christopher Nolan, coinvolse 70 persone; ne morirono 12, uccise dai proiettili dello studente James Holmes.
È una periferia americana anonima e claustrofobica a fare da sfondo alla narrazione che sovrappone, nella cronologia degli eventi di una giornata qualunque, le vite delle vittime, protagoniste inconsapevoli di un epilogo premesso e invasivo benché volutamente omesso dalla narrazione (il film si chiude sul sorriso erotico di “Holmes”/Jocker che evoca, come del resto il titolo del film, la trilogia di Nolan).
Dark night è la rappresentazione di un “autismo armato”, della commistione fatale tra disagio sociale e “libertà”/facilità di possedere un’arma. È l’ipotesi per immagini dell’incomunicabilità come germe di alienazione, il lato oscuro della realtà virtuale, della brama delle sue aspettative fallaci (mostrate dalla prospettiva ridicola della pratica maniacale dei selfie) e delle frustrazioni che restituisce. Lo scollamento dalla realtà recide il legame con l’altro, traducendosi nell’incapacità/impossibilità di creare o mantenere relazioni umane. Il ripiegamento su se stessi è un grido muto che Sutton esprime per immagini su cui si innestano silenzi e dialoghi rarefatti. Finché si è in grado di contenerlo quel grido. Che avanza sottopelle, in un climax ascendente di pulsazioni che montano sulle musiche di Maica Armata (e stavolta il nome è solo una beffarda combinazione!).
Montano fino ad arrivare in quella sala, per esplodervi; in quella stessa sala in cui ci troviamo anche noi, violentati dalla scoperta ingenua e sconvolgente della vulnerabilità del nostro stesso riparo, di quel culmine, in cui si abbandona il reale, che il cinema rappresenta.