#Venezia73 – In dubious battle, di James Franco

Anche se nell’angolo si cela sempre il dubbio che si possa trattare unicamente di capricci di schizofrenia creativa, l’ingenuo entusiasmo delle idee artistiche dell’attore è in grado di travolgere

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Qual è la battaglia che continua a combattere James Franco? Che cos’è che lo porta a immergere le sue membra divistiche nella fanghiglia di progetti registici così ostinatamente personali, gratuiti, umorali e potenzialmente suicidi come questa trasposizione del romanzo omonimo di John Steinbeck (1936)?
Facciamo una prova: teniamo d’occhio le apparizioni di Selena Gomez all’interno del film – è mai possibile che una teen-star del pop multiplanetario possa finire a interpretare la giovane bracciante con neonata al seguito da crescere nell’America rurale della Grande Depressione senza un uomo al fianco nel bel mezzo dei sanguinosi tafferugli scoppiati tra i lavoratori scioperanti per il salario da fame e l’esercito di vigilanti messo in campo dal latifondista senza pietà? La risposta d’impulso sarebbe ovviamente “no”, eppure eccola Selena, vestito bianco consumato, pupetta in braccio e sguardo corrucciato sull’uscio della sua tenda mentre guarda con preoccupazione l’uomo di cui si è innamorata, l’imberbe Nat Wolff, arringare le folle stremate a continuare a battersi per poter lavorare con dignità.
Ecco come funziona James Franco: anche se in un angolo si cela sempre il dubbio che si possa trattare unicamente di semplici capricci di schizofrenia creativa, l’ingenuo entusiasmo delle idee artistiche dell’attore è in grado di travolgere tutto e tutti, compreso se stesso e il cast di glorie della Hollywood alternativa chiamate a partecipare alla rievocazione storica militante (Robert Duvall, Sam Shepard, Ed Harris, John Savage…) – finendo così per regalare per esempio a Vincent D’Onofrio il miglior ruolo al cinema da tanto tempo.

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Ed ecco che il personaggio di Mac che Franco tiene per sé sembra esplicitare in tutto e per tutto il suo modus operandi di star che si tuffa con regolarità e senza remore nell’abisso del cinema indipendente e guerrigliero: il sindacalista è un “uomo di città”, per guadagnare la fiducia dei lavoratori e portarli alla lotta dovrà sporcarsi le mani fino in fondo nella vita difficile e violenta dei raccoglitori di mele degli anni ’30 – all’inizio ne vestirà soltanto i panni, ma nel finale sarà in grado di donarsi completamente alla causa, alla terra, al sacrificio cristologico degno dello scorsesiano Boxcar Bertha.
Come nel più emblematico dei suoi progetti, Interior – Leather bar del 2013, per introdursi appieno e con la forza nella cultura d’arrivo, Franco e il suo Mac sono disposti a giocare anche di trucchi, tradimenti e trabocchetti, ma l’approdo finale sarà in ogni caso l’assimilazione assoluta con l’immaginario preso come riferimento.

Il risultato ha come al solito un fascino tutto suo, bislacco, estemporaneo e per certi versi incomprensibile, anche se si intuisce come alcune scelte di messinscena minimal del film siano dettate più dal budget contenuto che dall’amore di Franco per la stilizzazione: l’afflato intimo ed autobiografico dell’operazione potrebbe essere confermato anche dalle continue accuse che vengono fatte a Mac/Franco di possedere un temperamento eccessivamente “freddo” (difetto che viene perennemente imputato ai mille frutti della sua versatilità multimediale), da “figlio di puttana” – il nostro sorride, non se la prende, ribatte: “sono stato chiamato in modi peggiori…”

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