#Venezia76 – Waiting for the Barbarians, di Ciro Guerra

Tratto dall’omonimo romanzo di J.M. Coetzee, Waiting for the Barbarians è una storia universale che racconta il rapporto che noi occidentali abbiamo sempre imposto con l’alieno, con il barbaro.

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In un anonimo avamposto di frontiera, ai confini del tempo e dello spazio, un magistrato onesto e saggio amministra da anni le piccole beghe locali della sua comunità. Nella cittadina la situazione è sempre tranquilla e la popolazione, composta principalmente da contadini e pastori, da decenni vive in pace con le popolazioni nomadi che si trovano al di là delle mura della loro fortezza. L’arrivo di un manipolo di poliziotti, guidato da un ambiguo colonnello, porta fino ai confini dell’Impero, il progetto imperialista della Capitale. Il potere è ormai determinato a rovesciare il proprio rancore (o la propria avidità) sui vicini, ora considerati solo barbari e nulla può impedirne i piani di distruzione. I tentativi del magistrato, che conosce meglio dei nuovi arrivati la situazione, di dissuadere i militari sono vani e l’uomo, mosso dalla sua integrità, rimarrà solo nel fronteggiare il virus implacabile dell’odio isterico che, portato dai sempre più numerosi soldati, contagia tutti i suoi concittadini.

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Tratto dall’omonimo romanzo del sudafricano J.M. Coetzee, Waiting for the Barbarians è una storia universale, il racconto metaforico di un rapporto millenario. Da un lato noi, l’occidente, forte della nostra presunzione fragile di essere i detentori della Civiltà, della vera Religione, della giusta Morale. Dall’altro c’è l’Alieno, il Barbaro, quello che, nel migliore dei casi, è un eccentrico personaggio da sfruttare, nel peggiore, un pericolo da annientare. Il film di Ciro Guerra, pur ambientato in un tempo improprio che unisce elementi medioevali a sapori ottocenteschi, vuole ribadire la propria atemporalità, in un’esposizione “contraddittoria” che è, allo stesso tempo, saggio storico e storia d’attualità. Waiting for the Barbarians potrebbe essere ambientato il giorno prima della Caduta dell’impero romano, nel pieno della conquista del West o a Lampedusa dei nostri giorni. Il peso del suo messaggio rimarrebbe identico. Guerra si pone al centro dei deliri paranoici e dell’ambizione famelica di una società, la nostra, che dietro ad alibi ottusi perde inesorabile la propria umanità.

E’ questo il cuore morale di un progetto che, pur ostentando i propri limiti, cerca di dire la cosa giusta nel modo meno didascalico e ricattatorio possibile. Pur con un budget irrisorio (che non impedisce a Guerra di creare una oltre frontiera che sembra venire direttamente dal Gobi, dalle pendici degli Urali) e con una scelta di casting troppo orientata al coinvolgimento del nome esagerato (Depp e Pattinson danno sullo schermo dei risultati stranianti, che lasciano perplessi), il film ha il gusto di restituirci le sensazioni del Deserto dei Tartari di Buzzati/Zurlini rafforzandone l’impatto politico. Probabilmente la metafora potrà sembrare, non a torto, facile e scontata in alcuni passaggi. In fin dei conti, il lavoro di Guerra non aggiunge nulla di disturbante a un discorso ideologico che va avanti negli ultimi anni.

Eppure, proprio nell’evoluzione dell’eroe, il Magistrato interpretato da un lucido Mark Rylance, c’è l’azzardo del regista. Il protagonista agisce e rompe l’equilibrio perché mosso sia dal suo indiscutibile senso morale, sia dall’amore impossibile verso la misteriosa donna straniera per cui sacrifica la sua posizione e tranquillità. Una passione sincera ma comunque egoista e totalizzante (e per questo rifiutata dalla donna, nonostante la gratitudine verso il suo salvatore). Se anche i migliori di noi, con intenzioni e i sentimenti più nobili, non riescono a non rendere oggetto il Diverso, a non imprigionarlo dentro il proprio utile, le proprie esigenze, allora non resta che porci una sola domanda: tra Noi e Loro, chi è il pericolo? Chi sono i veri barbari?

 

 

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