Wes Anderson alla ricerca del tempo perduto

Il regista texano torna nelle sale con “The Grand Budapest Hotel”, al tempo stesso summa della sua personalità stilistica e commosso omaggio al cinema di un tempo che fu.



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Nel lontano 1926, quando il cinema era ancora giovane e ben lontano dall’aver esplorato tutte le sue potenzialità comunicative, Epstein scriveva che quello cinematografico è un mezzo "psichico" , "soprannaturale": mostrando infatti la quintessenza degli oggetti, astraendo e poi trasformando, è in grado di evidenziare l’autentico ritmo del reale.
E’ a queste parole che riporta immediatamente la visione dell’ultima fatica di Wes Anderson; il suo mondo a tinte pastello popolato da personaggi surreali e governato da leggi (spesso anche fisiche) bizzarre si arricchisce di un ulteriore tassello, sicuramente il più complesso sul piano narrativo e quello più ricco di situazioni e personaggi: qui i piani temporali che si intersecano attraverso un’elaborata architettura narrativa sono addirittura quattro (l’oggi, il 1985, il 1968 e il 1932). Di inedito si riscontra un ritmo decisamente più sostenuto, specialmente nella seconda parte in cui la componente action/adventure viene a galla e che culmina con le divertenti e paradossali sequenze della fuga dal carcere (che riporta alla mente decine di film carcerari, da Forza Bruta di Dassin al capolavoro siegeliano Fuga Alcatraz) e dell’inseguimento sugli sci, che sembra addirittura parodiare le rocambolesche corse sciistiche che da sempre costellano la serie di 007, fondendole con trovate slapstick degne dei cartoons Looney Tunes.
Da segnalare la straordinaria verve comica dimostrata da Fiennes in quella che è probabilmente la migliore interpretazione della sua carriera; Monsieur Gustav, nel rapporto quasi paterno che instaurerà col giovane Moustafa (un altro dei topoi andersoniani quello della ricerca di un’identità paterna smarrita o mai conosciuta) sembra incarnare alla perfezione la personalità cinematografica dell’autore: elegante, raffinato, edonista, ma anche perverso (Gustav è gerontofilo) e calcolatore, capace di sedurre ricchissime nobildonne over 80 solo per ottenere un tornaconto personale.
Palesi anche i rimandi ai classici screwball del cinema hollywoodiano dei tempi d’oro, in particolare Lubitsch (Vogliamo Vivere in primis), forse il più europeo fra i tanti registi di origine europea trapiantati a Hollywood in quel periodo, ma anche Preston Sturges e Frank Capra, conditi dalla presenza di un black humor dalle tinte macabre inusitate per il regista (il gatto sfracellato, le dita amputate, la donna decapitata).
Sfilano nel cast tutti i nomi più cari ad Anderson, a volte anche in camei di poco più di un minuto (gustosissimo quello di Bill Murray).
Forse, come i più accaniti detrattori di Anderson probabilmente sosterranno, il senso di questa Recherche tutta andersoniana è proprio lì, rinchiuso nelle perfette e fredde geometrie del Grand Budapest; nel suo ordine, nelle sue regole cui di fatto Monsieur Gustav con rigoroso spirito di abnegazione sovrintende.
Ma se è vero, come scriveva Deleuze, che il significato autentico della Recherche proustiana è quello in cui viene presentata l’apparizione delle verità come un’ "avventura dell'involontario", attraverso impressioni e incontri che ci costringono a guardare la realtà con occhio diverso e ad interpretarla di conseguenza, allora ecco che questo The Grand Budapest Hotel ci appare sotto un’ottica differente: un invito a riconsiderare il nostro rapporto con il cinema, lasciando da parte il ruolo di spettatore passivo e ricostruendo da zero un immaginario cinematografico che necessariamente prende ispirazione dalle grandi pellicole del passato ma al tempo stesso è proiettato verso il futuro, verso un’epoca in cui della pellicola non resterà che il fantasma.

 

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