ZEBRA CROSSING. Della relazione tra suono e video: intervista ad Alessio Bertallot

Abbiamo intervistato lo storico dj Alessio Bertallot in occasione dell’inizio della nuova stagione della sua web radio Casa Bertallot

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Oggi nei videoclip il primato delle immagini sulla musica sta diventando talmente importante che spesso sembra si dia più attenzione alla creazione del video che a quella del suono. Di questo e altre contraddizioni abbiamo parlato con Alessio Bertallot, voce storica della radio italiana e, da anni, attento esploratore delle novità musicali contemporanee. Già creatore di B-side (storico programma di Radio Deejay, incentrato sulla ricerca di nuovi suoni) Bertallot appare sulla scena musicale italiana all’inizio degli anni 90 come frontman degli Aeroplanitaliani, vincitori del premio della critica a Sanremo 1992 con la canzone “Zitti, zitti”, che li vide creare la famosa performance di un lungo silenzio di 30 secondi in diretta.
Performance è parola a noi cara per il suo essere in diretta e differita allo stesso tempo, capace di stare tra teatro e cinema, tra realtà e immagine, tra vuoto e pieno.
In occasione dell’inizio della nuova stagione di Casa Bertallot, la web radio creata nel 2013 (di cui esiste anche una app da scaricare), e trasmessa proprio da casa sua, siamo andati a trovare Alessio Bertallot per scoprire il suo punto di vista in merito a tecnologia, suono, video e anche in merito all’hip hop, il grande bacino musicale e culturale da cui proviene.

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Ciao Alessio, grazie di averci accolto a casa tua.

È un piacere.

Intanto vorremmo sapere: la casa e la applicazione sono due progetti legati?
Sono legati perché la casa serve a dare una fisicità, un luogo in questo mondo a qualcosa che sta nell’altro mondo. La web radio e la app Casa Bertallot esistono come realtà metafisica. Si ascoltano dall’immaterialità del mondo che la tecnologia ha aperto. Era necessario allora dare una concretezza, identificare con un luogo fisico. Sentivo fosse importante. La casa è anche meglio perché è un luogo intimo, non solo fisico. Quindi permette di confondere il luogo intimo con il pubblico. Penso che non sia difficile fare una web radio, non c’è bisogno di strutture, se non una minima struttura tecnologica più i contenuti da metterci. Ma ho pensato che nell’immaginario del pubblico la web radio, soprattutto se legata alla figura di un dj come nel mio caso, dovesse essere completata da uno spazio dove realmente stanno le persone. La casa si è presentata come alternativa rispetto alla mia esperienza nelle grandi radio, dove è tutto più standardizzato (studi radiofonici, luoghi tutti uguali, funzionali ma non personali). Poi questa è veramente casa mia, e questo è qualcosa che chi viene qui sente subito, e si comporta diversamente da come si comporterebbe nelle grandi radio. Per esempio Robbie Williams, prima si è fatto precedere da una ventina di cortigiani, tra servizio d’ordine, casa discografica, manager italiano, manager inglese… ma poi una volta qui dentro ha cominciato a guardarsi i dischi, a parlare con me di quel disco che aveva anche lui, ha chiesto se poteva uscire e andare a fumare… aprendosi ad una dimensione in cui forse sentiva qualcosa di più vero che dentro una fabbrica di contenuti. Il rapporto tra la app e la casa è che la app è la casa in uno spazio metafisico, la casa è la app nel mondo reale, che forse è più comprensibile per tanta gente, se si vuole raccontare una tecnologia.

Perché usate i podcast?
Il nostro tema fondamentale è una costante ricerca sulle novità musicali. Trasmettiamo questo contenuto in forma di podcast perché l’ascolto della radio a posteriori, cioè podcast e on demand, è diventato sempre più importante, e questo è sempre più vero da quando abbiamo cominciato Casa Bertallot. La gente ha imparato ad ascoltare i contenuti radiofonici quando può ascoltarli. Ovviamente in questo modo le cose cambiano, perché manca il pathos di viversi una diretta. Personalmente penso che ascoltare un podcast è come restare dentro il proprio bozzolo. Astraendosi rispetto al viverselo con gli altri. E questo devalorizza il contenuto. Per me questo non è un bene ma non ci si può far niente. Il mondo è diventato così. Se per certi aspetti perdiamo qualcosa, per certi altri ne guadagniamo altre.

In termini di “linguaggio” c’è differenza tra diretta e podcast?
C’è differenza, ma prima bisogna definire meglio cosa siano i podcast. Perché si fa facilmente confusione, e le due cose a volte coincidono. Se io registro il programma mentre lo faccio in diretta e poi lo rendo disponibile on demand, su una piattaforma che ospita la registrazione e la fa ascoltare a richiesta, tecnicamente quello è un podcast. Però in realtà è radio on demand. Perché ascolto quel programma quando voglio io. Il meccanismo è lo stesso però tendenzialmente il podcast è un argomento un po’ più tematico, sviluppato per una serie di appuntamenti. Oggi si tende a definire così i podcast. Io non sono così d’accordo con questa distinzione, e penso che sia anche giusto, entro certi limiti, che si confondano.

Preferisci la diretta?
Onestamente penso che tra diretta e on demand la diretta dia più energia, soprattutto se hai comunicazione con la gente, possibilità di scambiare dati, impressioni. In quel modo vedi il pubblico, soprattutto grazie al feedback. Ma se non ci fosse l’on demand le web radio non avrebbero vita facile, perché la web radio si sta salvando grazie all’on demand. Cioè far fruire i propri contenuti al di fuori della diretta. Una web radio che si occupa di divulgazione musicale di ricerca non ce la farà mai a combattere contro un programma della RAI, di Radio 24 o di Radio Deejay, che hanno infinite risorse in più, argomenti molto più mainstream che attirano molto più pubblico. È inutile sgomitare in un contesto dove già stanno facendo il massimo per attirare l’attenzione. Meglio puntare a creare qualcosa che si può ascoltare quando si ha voglia. Lo dico sapendo che che si perde l’esperienza di comunità. Il podcast è simile all’headset della realtà virtuale. Ti mancherà sempre quel senso antropologicamente fondato di dire “ho vissuto un’esperienza e l’ho condivisa con gli altri, perché gli altri la vivevano insieme a me, nel momento in cui avevano questa esperienza”. La grande forza della diretta, e della radio come si faceva una volta, è questa. Il valore della musica è relativo. Ci metti sempre qualcosa di tuo come ascoltatore. Quindi il fatto di vivere la musica dentro un’esperienza collettiva fa sì che diventi più importante.

Quale é il tuo rapporto con la tecnologia?
Ho un rapporto di infinità curiosità, conflittuale anche. La tecnologia negli ultimi 10, 15 anni, ci ha molto spostato il terreno sotto i piedi. È eccitante perché sempre foriera di occasioni, di spazi nuovi da esplorare. Ma nella musica è stata anche troppo determinante. Ha rivoluzionato senza mettere ordine. Solo adesso si ricomincia a costruire un ordine che secondo me è necessario, culturalmente necessario. C’è stata un’esagerata fiducia nell’assenza di controllo, di direzione dei cambiamenti dal punto di vista culturale, fiducia che ha generato anche mostri. Forse questo è insito in qualsiasi tipo di rivoluzione. Ma la tecnologia resta un mezzo, non è né bene né male. Se usi questo mezzo in maniera creativa ci fai qualcosa di interessante, altrimenti si va verso la mitologia della tecnologia. Io ho cominciato facendo le ricerche, prendendo l’aereo e andando a Londra o New York, a cercare dischi prima che arrivassero in Italia. Questo mi richiedeva un sacco di tempo e fatica. Ma era necessario per fare scouting dei contenuti. Con la rivoluzione digitale non sono più costretto a prendere un aereo, non devo più spendere un sacco di tempo andando nei negozi di dischi, perché mediamente le cose le trovi a portata di click. Però contemporaneamente questo ha generato anche un enorme quantità di fuffa inutile. Che forse mi richiede più tempo per discriminare rispetto a quello che impiegavo per andare in un luogo dove qualcuno aveva già fatto una preselezione ben fatta. Quindi è cambiato un mondo, ma non necessariamente è vero che sia migliorato.

Come dj ti rivedi nella descrizione di compositore di colonne sonore del tempo e dello spazio di chi ascolta?
Il mio lavoro ha assolutamente a che fare con questo tipo di pensiero, sentirsi colui che mette la colonna sonora del tempo dell’ascoltatore. Anzi forse questa è proprio la prima cosa. Perché comunque arrivo al mondo della radio come “musicista” e il musicista tende ad usare la musica come colonna sonora di sentimenti, momenti, esperienze. Quindi scegliere, produrre, suonare e modificare la musica in funzione di questo tipo di narrativa. La maggior parte dei dj tende più ad essere “giornalista”, mettendo insieme una serie di informazioni rispetto alla musica. Io non l’ho mai vista così. Il mio essere musicista mi fa passare delle volte più tempo a fare una scaletta in funzione ritmica, in modo tale che i pezzi si sposino tra di loro ritmicamente o timbricamente (o addirittura armonicamente), che a dare loro una logica di comunicazione ed informazione. Preferisco fare qualcosa che abbia un certo colore piuttosto di mandare qualcosa che abbia densità di informazioni e novità. Quindi penso si parta proprio dal costruire un soundtrack, quanto più emotivo possibile, fatto di colori, significati, di una semantica che non passa attraverso le parole. Le parole sono assolutamente accessorie. La musica non dovrebbe neanche essere spiegata. La spiego perché è un appiglio da dare alla gente per farle ascoltare qualcosa di diverso. Ma in realtà si potrebbe parlare molto meno. C’è poi un certo tipo di musica più funzionale per fare un soundtrack. Però il massimo sarebbe quello di costruire un percorso di scelte, di dischi, di suoni, anche soltanto frammenti, che sia poetico, oltre la semplice playlist.

Hai la sensazione che il suono sia più leggero dell’immagine?
Il suono non pretende di essere esaurito in una descrizione, non pretende di essere completato. questo innesca un meccanismo in cui è il fruitore a metterci del proprio. Forse il suono non arriva al livello di astrazione di un libro, ma oggi sta in una via di mezzo. Con l’arrivo di Mtv, e l’arrivo di una società spostata sull’immagine, la musica ha scoperto di non poter essere “promossa” se non usa le immagini. In realtà la musica dovrebbe essere ascoltata senza guardare “immagini” perché esse sono fuorvianti. Aggiungono un valore, forse giusto, ma anche non necessario. Se un pezzo è un capolavoro diventa difficile poi aggiungere immagini altrettanto capolavori.

Oggi chi fa musica pensa più al video che alla canzone?
Ormai l’attenzione più per le immagini che per il suono è diventata un costume sociale. Forse c’è una ragione antropologica per cui si tende a dipendere dalle immagini. Io ascoltavo, e ascolto, musica senza bisogno di immagini. Ma vedo tante persone che hanno bisogno di “vedere” la musica. Il successo di Youtube, tuttora la piattaforma principale per l’ascolto di musica (nonostante Spotify e gli altri), è dovuto anche a questo. Cioè rientrare in una dimensione formata dalla TV. Penso si perda qualcosa, perché non si affina la propria sensibilità di esplorare il suono. Se si ascolta musica con il doppio, il triplo delle informazioni che normalmente si avrebbero, dato che tutto è associato a immagini, si indebolisce la capacità di analisi, di percepire la musica su più fronti. Si leva qualcosa all’analisi del suono, del colore, della timbrica della musica. Si spreme poco il frutto, ricavandone poco, perché ne hai un altro da spremere.

Cosa pensi del video “This is America” di Childish Gambino?
Per fare una valutazione corretta bisognerebbe essere più immersi nella realtà americana contemporanea. Perché l’argomento è quello. Tornando alle radici del rap Childish Gambino sta dando quel messaggio. Il rap ha avuto, verso la fine degli anni 80, una sua fase cosciente in cui i Public Enemy – per fare un esempio – volevano portare un significato, una posizione anche politica all’interno dei testi. Ricordo come questo sembrasse essere “the next big thing” del rap. Quindi Childish Gambino sta ritornando alle radici giuste, usando uno strumento particolarmente duttile per raccontare questi contenuti. La canzone poi non è così disprezzabile. Se l’intenzione era far passare il messaggio più della canzone quel tipo di video è utile, e penso che come video sia un’operazione promozionale ben fatta. In più credo che se prendi la maggior parte dell’hip hop di oggi forse Childish Gambino è uno di quelli che si salva, come potrei dirti Mos Def. In Italia Willy Peyote cerca di mettere del senso nelle cose. Ma buona parte dell’hip hop è diventato pop e basta. Con questo non voglio dire che c’è stato un cambiamento in peggio. Però aumentando la quantità è aumentata anche la spazzatura.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=VYOjWnS4cMY]

Prendiamo i famosi 30 secondi di silenzio al festival di Sanremo: l’idea era di usare la televisione in un altro modo?
La cosa fu pensata apposta perché eravamo in diretta in televisione. In condizione controllata non ce l’avrebbero mai fatto fare. Nelle condizioni di controllo, per esempio, che ci possono essere in un talent show di adesso. Noi sapevamo di andare in diretta in una situazione in cui essi dovevano accettare quello che facevamo in una forma non precisamente definita. Una forma che sarebbe “accaduta” sul palco. Onestamente gli avevamo detto che il silenzio sarebbe stato più breve… infatti i trenta secondi dovevano essere meno. Io dovetti anche contarli a mente, dato che non avevo un cronometro. Avevo dovuto imparare a memoria il ritmo con cui dovevo contare e questo portò ad un minimo di umana imperfezione. Ma non era importante che fossero trenta secondi per forza. Ricordo che il regista fu informato all’ultimo, ed obiettivamente egli poteva interrompere il tutto inquadrando un’altra cosa. Ma si rese conto che quella era una performance consapevole e condotta fino in fondo, e ci diede corda.

Quello è un momento di televisione pazzesco
Assolutamente

Fa la storia della tv e, in un’ottica di espansione del cinema oltre sé stesso, si lega alla storia del cinema
Sì, e tocca anche il teatro, essendo una performance

Anche in relazione al web, cosa sarebbe successo oggi?
Sanremo funziona ancora così. Ma appunto, oggi esiste il web. Quindi penso ci sarebbe stata una viralizzazione del momento di silenzio dentro la canzone, che però avrebbe banalizzato la cosa. Essendo Sanremo uguale a sé stesso la stessa performance oggi si vedrebbe come allora, cioè come esperienza collettiva di chi la guarda in diretta, nel contesto dello show. Ma sul web taglierebbero e mostrerebbero solo il silenzio, con il risultato che gli Aeroplanitaliani sarebbero solo quelli che hanno fatto quei trenta secondi di niente. Invece non erano trenta secondi di niente. Era un modo per porgere il vuoto. Che sarebbe stato completato dalle persone che guardavano in diretta quel vuoto. Quindi tornando al discorso di prima sull’immagine noi, non proponendo apparentemente nulla, facemmo sì che il significato di quel gesto fosse completato dalle persone che lo vivevano. E si elevasse. Dato che poi dentro quel vuoto ognuno ci ha messo del suo. Quel silenzio si capisce, o ha senso, nel momento in cui è antitesi rispetto a quello che c’è prima (che è un crescendo orchestrale, semantico e di significati) e che arriva ad un punto di crisi tale per cui il silenzio è una naturale conseguenza. Poi dopo c’è la sintesi, con un’espressione un po’ più standard di canzone che conclude il pezzo e l’esperienza.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=w9wnXjrL-Ec]

Un film che volesse parlare della Milano di oggi dovrebbe avere le canzoni di chi?
Dei Coma_Cose. Hanno spesso la citazione giusta della situazione milanese che vivono. E non sono tantissimi quelli che raccontano la città da quel punto di vista. Loro sono perfetti perché fanno proprio degli spaccati milanesi. Per esempio quando dicono:
“Poi ti ho portata sul Naviglio
con in mano un bicchiere di sale
e l’ho buttato in acqua come a dirti
vedi non ho niente però ti regalo il mare”
C’è il Naviglio, il vivere da giovani senza soldi, in una Milano che è cara, che è difficile, che però è l’unico posto dove pensare di stare. Sono le vicende di una coppia che vive a Milano in quella dimensione, che trova i propri spazi, e trova la poesia in una città che apparentemente non ne offre. È potente.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=SfccLqKlhnA]

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