ZEBRA CROSSING. Icons of Light – Bill Viola in mostra a Roma

Fino al prossimo 26 giugno Palazzo Bonaparte a Roma ospita la mostra dedicata al grande video artista. Zebra Crossing è andato a visitarla

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Fino al prossimo 26 giugno Palazzo Bonaparte a Roma ospita la mostra Icons of Light dedicata all’americano Bill Viola.
Viola nasce a New York nel 1951, studia a Syracuse, si forma lavorando anche a Firenze e in Giappone e inizia a produrre video “artistici” verso la metà degli anni 70, affinando sempre più la tecnica, una tecnica molto sorretta da una importante riflessione teorica che tra le altre cose tende a unire Oriente e Occidente, sacro e profano.

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Dopo la morte di Nam June Paik, Bill Viola diventa il più importante video artista vivente, e il suo nome (talmente semplice da divenire brand riconoscibile ai più) risulta sinonimo di quella cosa che tutti ormai chiamiamo “video arte”.
Oggi la video arte è disciplina talmente entrata nella nostra testa che si presta facilmente a istituzionalizzazioni e “musealizzazioni” le quali rischiano di appesantire la fluidità dell’arte di Viola stesso.
Nonostante questa imponente brandizzazione Viola resta protagonista nel nostro immaginario e riesce tuttora a farci decollare verso il suo “oltremondo”.

Infatti nel 2022 la centralità di Bill Viola è data proprio dalla liquidità assunta dalla società negli ultimi decenni, come se l’artista fosse arrivato, consapevolmente o meno, al pensiero di Bauman prima della popolarità dello stesso Bauman.
Viola però non è mai stato solo un istintivo, ha sempre perseguito una linea coerente di studio e approfondimento in cui anche l’arte classica e moderna sono fondamentali (così come la riflessione sul buddismo e sui sufi).

Viola si è trovato al centro di una nuova visione del mondo in cui la dissoluzione delle certezze che colpiva la grande narrazione novecentesca verso fine XX° secolo veniva facilmente sommersa da quella liquefazione di cui parla Bauman, verso un flusso di informazioni e di senso che tanto avrebbe segnato e segna tuttora la nostra vita.
Al giro di boa Viola era già lì, aveva già liquefatto molto, aveva unito ambiti distanti, ed era stato – per esempio – tra i primi nel campo della video arte a comprendere la forza nell’uso degli elementi primari come strumenti narrativi.

Si pensi anche solo all’uso del fuoco: Viola lo usa in contesti conosciuti in modo tale che tutti possano capire e amare, anche inconsciamente.
È il caso lampante della seconda parte di Night Vigil (2005-2009) in cui l’attore Jeff Mills viene verso di noi da molto lontano arrivando in primo piano attraverso le sempre fiamme più alte.

Il fuoco immediatamente pone chi guarda in una direzione di pensiero, di sensazione, un effetto di “ritorno a casa” su cui Viola muove la propria riflessione artistica.

Una delle ragioni della centralità di Viola deriva soprattutto dalla percezione netta di come oggi la sua arte sia veramente sempre di più un’indicazione chiara per l’intera realtà audiovisiva che ci circonda.
Per questo per esempio uno spazio come Palazzo Bonaparte a Roma diventa luogo preciso per amare un’intuizione semplice ma potente come The greeting (1995). Viola per essa unisce il video all’arte rinascimentale di Pontormo, reinterpretando in maniera esatta il dipinto alla luce dei progressi della tecnica.

Ovviamente nella sua quarantennale carriera anche Viola usa (e ha usato) gli strumenti del cinema (si pensi solo agli attori dentro le sue installazioni) ma focalizza la sua e la nostra attenzione sulla apertura di senso data dall’opera, come se volesse rendere lo spettatore quasi regista, montatore e attore egli stesso delle visioni mostrate dall’artista.
Anticipando in questo modo quella proliferazione di schermi, di sensi audiovisivi e di “postcinema” che nel 2022 è assolutamente normale.

Il contenuto dei suoi video è sempre illuminante (nel senso quasi letterale e scritto fuor di metafora). La coerente riflessione su temi come vita, religione e morte, o tempo, spazio e nostra identità, o la sapiente cura con cui Viola mostra la trasformazione del corpo e del pensiero nel processo inesorabile del tempo, portano le immagini dell’artista ad avere una valenza quasi mistica. I suoi video sembrano messaggi divini dati da idoli audiovisivi da contemplare.
Potremmo dire che, oltre gli agganci col modus operandi del cinema, il gesto intuitivo sorpassa e cattura lo sguardo solo per la forza dell’idea.

Un gesto di vita dalla valenza mistica, dove la vita è sempre protagonista. Da qui si capisce perché l’elemento primario più importante per Viola è sempre l’acqua. Al di là dell’evento biografico (il quasi annegamento da bambino) in Viola l’uso di un corpo quasi sempre bagnato, se non inondato, immerso o addirittura elevato come un angelo (Tristan’s Ascension, 2005) rimanda a temi come purificazione e rinascita a nuova vita con una continua celebrazione del ciclo vitale.

Volendo essere il più chiaro possibile a livello di messaggio (in senso quasi jakobsoniano) l’artista non si fa problemi ad usare strutture narrative esistenti come il Vangelo, la Bibbia o i mantra buddistici (che ci appartengono anche inconsciamente) per appoggiare su di essi elementi capaci di galleggiare, nuotare, immergersi nel nostro ricordo e nel nostro inconscio, affinché la vita torni sempre centrale nel nostro immaginario. Oltre la forma “racconto” è la vita ad essere “struttura”. La vita è il racconto e quindi la struttura è dentro di noi.

Si prenda per esempio un’installazione come The Dreamers (2013). Vediamo “personaggi” abitare uno schermo in cui la “trama” li vede dormire sommersi da acque che possono benissimo essere primordiali, ancestrali, come se essi fossero cresciuti da sempre, o tornati poi, nella placenta. La creazione di livelli di immagine aggiunge profondità alla visione. Infatti il nostro occhio vede uno schermo in cui sta un’inquadratura di uno specchio d’acqua che ha in sé (oltre sé /dentro sé) attori dormienti che vedono altre immagini dentro di sé. Viola con un’intuizione semplice ma potente aumenta la nostra visione (verrebbe da dire “aumenta la nostra realtà”) per farci fermare a riflettere e focalizzare su una costruzione letteralmente in abisso.

Lo stesso meccanismo succede per opere come Tristan’s ascension, Stations, Three women, The trial, Ascension o Martyr.

Togliendo l’acqua il fattore non cambia perché è l’immagine ad essere liquida, come avviene in Catherine’s room, The observance o Ancestors.

In Ascension (2000) Viola parte dal nero dello schermo, intuendo (al pari di cineasti come Cameron per Titanic che è del 1997) come al giro di secolo sia il caso di azzerare tutto e ripartire dal nero di uno spazio vuoto da re-immaginare, re-inventare come una tavolozza che si presta ad essere abitata dal nuovo mondo digitale. Tale nero su cui Viola insiste per qualche minuto viene improvvisamente squarciato audio-visivamente dal tuffo del protagonista. Più dell’occhio è l’orecchio ad essere catturato da questo repentino cambio di prospettiva, dal nero al tutto. La eccezionale resa sonora dell’acqua (la cresta dell’acqua toccata dalla schiuma del tuffo) crea un discorso ancestrale che senza parole racconta l’irruente arrivo della vita, l’apparizione dell’uomo nel mondo, la sua volontà di esserci e raccontarsi.
L’acqua fa veramente da ambiente primordiale, territorio da fecondare anche solo tramite lo sguardo dello spettatore che guarda questo schermo-acquario e viene a sua volta guardato.
La liquidità di un’immagine densa di senso come fosse un maelstrom che inghiotte e ridà nuove forme sta proprio alla base dello sguardo di Bill Viola, e viene ripresa da ogni sua installazione anche laddove non si usa l’acqua.

In Ancestors (2012) per esempio l’elemento primordiale è l’aria.
Lo spazio infinito del deserto viene abitato in campo lunghissimo da una coppia di esseri umani che da molto lontano lentamente cammina verso di noi. Il loro cammino viene offuscato dalla rifrazione creata dall’onda di calore del deserto, fino al punto in cui non li vediamo più. In quel momento Viola ci chiede (come all’inizio di Ascension) di guardare uno schermo vuoto in cui non distinguiamo più nulla tranne il bianco-grigio di una foschia immateriale creata dal calore umido del deserto.

L’atto di fede richiesto da Viola viene ripagato dal ritorno ai nostri occhi dei due protagonisti che ora più vicini iniziano meglio a delinearsi assumendo finalmente contorni precisi e riconoscibili. L’immaterialità dell’aria partorisce al nostro sguardo figure di vita su cui possiamo appoggiare il nostro senso.

In questo Viola ci chiede di essere partecipi e non ci vuole passivi. Lo stesso succede con The observance (2002) dove l’elemento aria è straordinariamente implicito. L’aria è l’invisibile materia tra i due soggetti guardanti, noi e gli attori. Noi guardiamo loro e loro guardano noi. Loro sono in pena per noi (forse per il nostro essere passivi spettatori zombie). Noi siamo sorpresi di guardare altri che ci guardano in quel modo. L’aria tra i due guardanti è lo spazio della visione attraverso lo schermo, come fosse un acquario a due direzioni.

Viola immerge la realtà in una dimensione sogno in cui il nostro inconscio non deve per forza capire ma deve vivere di sensazioni. Il flusso non si arresta mai.

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