24 FCAAAL – Bastardo, di Nejib Belkadhi (Concorso lungometraggi)

Bastardo di Nejib Belkadhi è sicuramente frutto di una lunga e non semplice elaborazione e assume i toni di una precisa metafora del potere e la sua naturale cattiveria ne fa un film di lucida consistenza che si colora dei toni cupi di una tragedia shakespeariana, i cui personaggi sono destinati a compiere il proprio cammino. Una favola nera, non scevra da una sottile e insinuante repellenza, un film che respinge, scomodo, per nulla gradevole.

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Il film del quasi esordiente Nejib Belkadhi è sicuramente frutto di una lunga e non semplice elaborazione. Bastardo rappresenta uno di quei casi, in verità molto rari, in cui il rispetto di precise regole della narrazione in genere (il climax, lo studio profondo dei personaggi, una precisa direttrice sulla quale si articoli e si sviluppi la storia) si armonizza e si connatura con l’affermazione di un ben identificato traguardo al quale tendere. Il rispetto di questi canoni non trasformano però, mai, il film in un ragionamento volto a dimostrare una tesi iniziale. In questa difficile operazione di scrittura e di messa in scena, riteniamo risieda la parte migliore e più spettacolare del film.

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Mohsen, nel suo villaggio è detto bastardo perché da piccolo fu trovato in un cassonetto dell’immondizia. La sua vita scorre regolare e un poco monotona. L’idea di fare il denaro installando sulla sua abitazione un’antenna per la ricezione del segnale per i telefoni cellulari, scatenerà un crescendo di violenze e trasformerà per sempre la vita del mite Mohsen.

 

Nel film, precisa metafora del potere, della sua perpetuazione e del cinismo necessario per conquistarlo, assistiamo alla progressiva, ma inesorabile trasformazione di Mohsen. Da semplice e sottomesso componente della piccola comunità, in un crescendo di violenze che coinvolge, lentamente, tutto il villaggio, ne diventa il capo indiscusso che taglieggia i suoi compaesani e il potere economico che mantiene gli consente di diventare anche il capo politico della comunità. Bastardo smette di raccontare la storia della vita del suo protagonista per diventare qualcos’altro, per trasformarsi in un film naturalmente cattivo, anzi in una metafora cattiva di una colpevole sopraffazione. L’aggressività che trasforma i caratteri svuotando le volontà in nome del rispetto di un potere comunque esso sia stato conquistato, è paragonata alla concezione sociale dei babbuini, nel documentario televisivo che si vede nel film. La loro aggressività istintiva si ferma davanti al riconoscimento della prepotenza e della supremazia e tutti sono pronti a farsi sodomizzare dal capo riconosciuto.

 

Sembra non potersi prescindere, quindi, guardando il film, dalla storia recente e tormentata della Tunisia e se da una parte il nostro pensiero non può non correre agli eventi che hanno segnato quelle aree geografiche e tutto il Maghreb con le rivoluzioni, a volte illusorie che hanno determinato, è anche vero che il film abbraccia il tema nella dimensione più antica e ben più radicata. In altre parole, Belkadhi riesce a costruire un film di lucida consistenza cui è organicamente connaturata una riflessione sul percorso che porta alla presa del potere.

Se il controllo della vita di questo anonimo, sperduto e inesistente villaggio era prima detenuto da una crudele famiglia di macellai in cui la donna, un personaggio dotato di una innata belluina violenza, teneva in pugno Larnouba figlio debole e vigliacco, che riusciva a trasformare la debolezza in animalesca sopraffazione, è anche vero che nulla sembra mutare quando il mite e sottomesso Mohsen comprende che il denaro gli consente ciò che prima gli era vietato e anche il desiderio di una donna irraggiungibile e bellissima. La leggenda di Faust si ripete e dè sotto questa luce che il film si colora di altre venature, sembra assumere un’altra statura, un’altra dimensione. Bastardo si colora così dei toni cupi di una tragedia shakespeariana, riconoscendo in essa le strutture ricavate dalla psicologia dei personaggi destinati a compiere, senza altra soluzione, il proprio cammino.

 

L’unica a restare integra nella sua ancestrale purezza è l’enigmatico personaggio di Bent Essegra già nell’infanzia compagna di giochi di Larnouba e di Mohsen e oggi costretta a concedersi per potere sopravvivere. La sua caratteristica è quella di attirare gli insetti e il suo corpo ne è sempre ricoperto. L’assimilazione della propria natura a quella degli elementi primordiali della vita ne fa un personaggio di straordinaria purezza, mai contaminato dagli eventi, mai colpevole e simbolo della perdita di identità e di innocenza.

Bastardo che viene segnato come film comico – grottesco, sembra perdere, alla visione, la prima delle due caratteristiche che gli vengono attribuite. L’unico humor che ritroviamo è quello amarissimo che conduce alla consapevolezza di una radicata cattiveria degli animi.

Bastardo si trasforma quindi in una specie di favola nera, non scevra da una sottile e insinuante repellenza che ne fa un film che respinge, scomodo, per nulla gradevole, immerso in una specie di sottilmente malefico realismo magico che ne farebbe un film sudamericano, che continua a lavorare dentro spingendo e affondando i suoi denti aguzzi come quelli dei babbuini che lottano tra di loro per la conquista di una illusoria egemonia.

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