Bastarden, di Nikolaj Arcel

Fagocita i suoi protagonisti all’interno di un mondo dove l’ambizione si tramuta in ossessione. Sul finale arriva però ad edulcorare la sfera di (a)moralità. VENEZIA80. Concorso.

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Cosa si è disposti a subire, pur di dare seguito alle ambizioni più recondite del nostro animo? Fino a dove ci si può inoltrare, quando la posta in gioco in merito ad un obiettivo cullato (anche troppo) a lungo comporta il sacrificio di tutto ciò che per cui vale la pena (soprav)vivere – se non addirittura esistere? Queste domande, riflesse nello sguardo fosco e impermeabile dell’ambizioso protagonista, si elevano in Bastarden a nessi tematici di tutto il racconto, a suture simboliche che cercano di legare i tormenti del mondo “interiore” (quello relativo alla sfera dei sentimenti dell’uomo) con le soglie di una realtà altrettanto burrascosa, quasi antropomorfizzata per come ci restituisce, attraverso la perturbante glacialità dei suoi spazi bucolici, i pensieri e le inquietudini di uomini che viaggiano costantemente a cavallo tra l’ossessione e la (dis)umanità.

Procediamo con ordine. Ci troviamo nella Danimarca di metà Settecento: Ludvig Kahlen (Mads Mikkelsen) è un capitano dell’esercito che desidera rendere rigogliose, in nome del Re, le lande desolate dello Jutland. È da tempo infatti che il sovrano danese aspira a costruire una colonia di profughi nella contea, in modo da civilizzare un luogo rimasto fin troppo a lungo vergine della presenza umana. Ma il percorso verso la “riqualificazione” simbolica del territorio – e perciò, verso il conseguimento da parte del soldato del suo sogno/obiettivo – è ostacolato dalle mire espansionistiche del latifondista De Schinkel (Simon Bennebjerg), un nobile che rivendica come propri i terreni su cui Ludvig sta cercando di coltivare delle patate, e che rivolge ogni sua azione alla neutralizzazione degli sforzi del suo rivale/nemesi. Al punto che in Bastarden tutto si gioca su un confronto a distanza tra uomini soffocati da ambizioni totalizzanti e per questo motivo incompatibili. Proprio perché, sembrerebbe suggerire Arcel, la bramosia personale può esistere solo se arriva a cancellare il desiderio di affermazione dell’altro.

Il discorso che il regista danese propone sulla tossicità dell’ambizione umana nell’istante in cui si tramuta in ossessione, acquisisce spessore soprattutto per come rende personale un conflitto fondato sull’odio reciproco. Affondare la nemesi significa qui far prevalere il proprio obiettivo, e quindi confrontarsi con la natura stessa delle proprie azioni. Ma nel film Arcel si spinge anche oltre: perché in Bastarden Ludvig può arrivare a consacrare il proprio sogno solo attraverso il suo paradossale sacrificio. E se buona parte del racconto fa sprofondare, chi si abbandona ai richiami dell’ossessione, in un buco nero in cui è obliterato ogni afflato di umanità, le innumerevoli incongruenze dell’epilogo rischiano di rinnegare tutto il percorso del protagonista, e di conseguenza il cuore tematico del film. Anche perché, a uomini come il capitano o l’insofferente latifondista, non resta che marcire nella solitudine che hanno costruito intorno alle loro rispettive – e contrarie – visioni del mondo. E non c’è in questo senso immagine più simbolica di quella di Ludvig costretto a masticare amaro i frutti del suo duro lavoro. Sommerso com’è da un clima di deflagrante afflizione. Nonostante l’agognata “vittoria”.

3.5
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Il voto dei lettori
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