#Berlinale68 – Las herederas, di Marcelo Martinessi

L’esordio del cineasta paraguayano si affida alle interpretazioni e a un impianto claustrofobico coerente ad una linea teorica molto consapevole, ma che non lascia filtrare le emozioni. Concorso

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L’esordio del paraguayano Martinessi arriva in concorso a Potsdamer Platz carico di attese, il supporto di Torino Film Lab, una vittoria tra i corti di Orizzonti a Venezia 2016 e una candidatura ai Teddy Award proprio alla Berlinale. Il cineasta, classe 1973, nella prima sezione di questo racconto di due ereditiere in disgrazia potrebbe dare l’impressione di volersi ancorare all’apparato autoriale classico delle messinscene da camera, con la mdp che spia nascosta tra le porte socchiuse e acquattata negli angoli quanto accade nelle stanze di questa casa di cui le due donne protagoniste hanno messo in vendita utensili, beni preziosi e suppellettili. Si tratta del punto di vista di Chela (Ana Brun, sulla cui interpretazione si basa sostanzialmente l’apparato del film), tra le due la meno disposta a cedere i ricordi di famiglia per pagare un grosso debito che potrebbe far finire in carcere l’amata Chiquita, la compagna di tutta una vita.
Ma quella del dramma tra quattro mura è una falsa pista, attraverso la quale Martinessi in sostanza dichiara l’intenzione di replicare questo sguardo rinchiuso, costretto attraverso uno spioncino, in ogni situazione che le due donne andranno ad attraversare, e che all’apparenza dovrebbero rappresentare delle aperture, del tutto ingannatorie. E così le visite in prigione da Chiquita sono altrettanti progressivi restringimenti del campo sempre più affollato di sagome di passaggio e intoppi sull’obiettivo, e la scelta di Chela di reagire all’allontanamento della sua figura di riferimento attraverso una bizzarra attività di “noleggio con conducente” per anziane comari con l’adorata Mercedes del padre, che Chiquita voleva martinessiBerlinmettere in vendita, rinchiude il film nell’abitacolo claustrofobico del veicolo, con i posti tutti occupati da ciarliere e incattivite vecchiette.

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Il circuito chiuso si replica anche con l’entrata in scena di Angy, la suadente anima ribelle di cui Chela sembra innamorarsi: la ragazza si divertirà a provocarla e a giocare con l’equilibrio instabile e precario della donna (peccato per quell’eccesso di simbolismo nel vassoio della colazione, di cui Chela pretende la composizione sempre impeccabilmente identica ogni mattina, che all’improvviso va in frantumi, e si mescola tutto…), ma la reazione della protagonista non avrà nulla di liberatorio, anche la nottata in spiagga tra gli ubriachi e i chioschi di hot dog subirà lo stesso trattamento oppressivo sull’immagine.
Unico autore dello script, Martinessi dimostra così un’indubbia consapevolezza del mezzo e dei relativi strumenti a disposizione, ma la struttura su cui lavora non permette purtroppo al suo film di far filtrare le emozioni attraverso le maglie strette, neanche quando interventi musicali e inaspettati gesti d’affetto (come l’abbraccio con la domestica, testimone silente, Pati) dovrebbero aprire degli spiragli di luce.
Il finale secco e improvviso, per quanto assolutamente coerente con la linea teorica del film (la liberazione di Chela non può che essere al di fuori dell’immagine), conferma un’attitudine fin troppo razionale nella gestione di una storia che paradossalmente si muove tutta sulle linee insondabili dei sentimenti.

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