#Berlinale68 – The Happy Prince, di Rupert Everett

Raccontare la Storia al cinema non è certo una facile impresa e Rupert Everett, pur essendo bravissimo nella prova fisica, cade nei cliché e rimane bloccato sulla superficie della tragica vicenda

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È una storia nota quella di Oscar Wilde, e ancor più noto è il declino che dopo la prigionia, lo portò alla morte. Oscar Wilde, come molti sanno,  finì in prigione per sodomia, denunciato dal padre del giovane amante Alfred Douglas, detto Bosie. Proprio da quel luogo ostile nacque uno dei capolavori più grandi della letteratura, una lunga lettera indirizzata a Bosie, da Wilde stessa intitolata De profundis (proprio nella freddezza del carcere era vitale scendere a fondo, giù giù al caldo della propria anima).

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Dalla scarcerazione di Wilde ha inizio The Happy Prince, il biopic interpretato, scritto e diretto da Rupert Everett.  L’attore inglese si cala negli ultimi anni di vita dello scrittore, il soggiorno a Deppie con Reggie (Colin Firth) e Robert Ross (Edwin Thomas); quello a Napoli, dove Wilde soggiornò con Bosie (Colin Morgan), a Villa del Giudice. Da lì, il ritorno a Parigi dopo che agli amanti furono tagliati i fondi dalle rispettive famiglie.

Quello su Oscar Wilde non è certo un biopic semplice da gestire. Oltre alla meritata fama delle opere, è proprio per la vita sregolata e decadente, per l’ingiusta condanna e i tanti giovani amori, che l’esistenza di Wilde sia una delle più conosciute e raccontate dai posteri. Per farlo Rupert Everett parte dal titolo di una fiaba dello scrittore, Il Principe Felice, la storia di una statua di un principe che avendo vissuto chiuso in un palazzo non ha mai conosciuto la sofferenza, finchè diventato monumento si ritrova partecipe di tutta il dolore umano. Dalla fama alla gogna pubblica, dalla vita sfarzosa al declino, il paragone fra Oscar Wilde e il suo Principe Felice è immediato e certamente giusto. Serve però ben altro per far si che da una storia  nota, esca fuori qualcosa di fresco, una giusta angolazione da cui raccontare ancora una volta i fatti noti.

Everett, che ben conosce il personaggio e la sua vita (molte volte lo ha interpretato a teatro),  restituisce  il fascino e l’eleganza del Dandy per eccellenza, e ben porta sul corpo e sul volto la magnificenza di un animale un tempo splendido, ora morente in esilio. Ma raccontare la Storia al cinema, non è di certo una facile impresa, perchè si sa, quella con la S maiuscola è già passata nella sua essenza, è subito conosciuta non appena la si definisce. Il compito di un buon regista è quindi quello di rinnovarla, di sottolinearne l’importanza. Non per forza di attualizzarne i fatti ma se non altro di coglierne l’universalità, di modo che possano continuamente risignificarsi. The Happy Prince purtroppo cade nei cliché e cede agli stereotipi (imperdonabile la madre di Napoli, città dei femminielli, che non si accorge del festino gay, come se davvero ignorasse l’esistenza di quest’ultimi). Così  Oscar Wilde, raccontato da Rupert Everett, si blocca sulla superficie; non trasmette poesia, bellezza, dolore, bruttezza, vergogna, non si avvicina nemmeno al piacere abbracciato stretto stretto al vizio. Una discesa nella profondità della vicenda ci sarebbe piaciuta molto di più, anche e soprattutto quando si racconta la disperazione di un esilio ingiusto, e gli ultimi anni di una vita che fu splendida.

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