BETTY: Baustelle, Fabio Capalbo e la Snorricam

L’ultimo videoclip per la band di Francesco Bianconi si riallaccia al POV di ispirazione aronofskyana per raccontare una nuova “Betty” a 20 anni di distanza da quella cantata dai Prozac+

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Era il 1998 quando i Prozac+ cantavano “…la storia di Betty la tossica/un’eroinomane, la più bella che c’è”.
Sono passati diciannove anni ed i Baustelle decidono di raccontare la storia di una nuova Betty, affidando all’obiettivo di Fabio Capalbo (sotto la supervisione del frontman stesso della band, Francesco Bianconi) il compito di catturare il suo sguardo, in bilico tra alienazione e ricerca di contatto umano.
La tematica potrebbe risultare banale, simile a quella trattata nel magniloquente videoclip di Levante firmato da Stefano Poggioni, ma Capalbo riesce ad evitare qualsivoglia moralismo, compiendo una scelta audace: monopolizzare il punto di vista attraverso l’uso della Snorricam.

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Questo specifico supporto video ha la particolarità di essere ancorato al corpo dell’attore, in modo tale da seguirne ogni più piccolo movimento, pur rimanendo focalizzato sul suo volto. Certamente non uno strumento nuovo nella cinematografia d’oltreoceano, ma spesso imprigionato nel suo uso più virtuosistico, il più delle volte a causa dell’impossibilità di avere un controllo totale in fase di ripresa.

Vi è una sola eccezione: il regista statunitense Darren Aronofsky, che con il suo Requiem for a dream ha dimostrato le reali potenzialità di questo mezzo. Nessuno potrà mai dimenticare la sequenza in cui una tormentata Jennifer Connelly attraversa i freddi corridoi dell’hotel in cui si è prostituita, ed il suo volto angelico incrinato dal rimorso.È proprio a questa scena che il regista romano si riallaccia, scegliendo di raccontare la storia di un’eroinomane della vita, che vive in un mondo perennemente ostile. È davvero tutto qui? Assolutamente no.

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Capalbo non si limita a replicare su più ampia scala il traguardo tecnico del regista newyorkese, ma decide di andare oltre l’idea di un semplice tributo e di riscrivere le regole di un linguaggio. Capalbo va consapevolmente in direzione contraria al cinema viscerale di Aronofsky, che racconta personaggi ai margini della società, proprio in virtù della sua capacità di calare lo spettatore stesso in un ambiente illuminato da lugubri neon e che riversa il suo marciume direttamente sull’obiettivo, in una cascata di pioggia, sangue e fluidi.
Il videoclip di Betty racconta il mal di vivere attraverso una prospettiva limpida, avvolto dalla luce calda della golden hour; Capalbo apre al massimo il diaframma per trasformare una città brulicante in un coro di ombre sinistre; rimpiazza i bruschi movimenti della ripresa action con il placido dondolio di chi cerca un equilibrio, ma ne è perennemente spaventato.


Ed è proprio in quest’ultimo aspetto che risiede la vera innovazione: Capalbo riesce a trasformare il corpo dell’attrice in un vero e proprio dolly, capace di compiere panoramiche, carrellate circolari e tilt-pan degne dal sapore scorsesiano, senza però sacrificare una narrazione portata avanti principalmente dalla prova di Valentina Violo.
La giovane attrice milanese caratterizza la sua interpretazione attraverso un ventaglio sterminato di microespressioni, balzando nel giro di un istante da uno stato d’animo all’altro e restituendo un’immagine autentica e mai caricaturale del bipolarismo di un personaggio che, pur senza dire una parola, si racconta perfettamente.

Questo videoclip risulta, quindi, non solo uno dei più pregevoli ritratti di donna realizzati da Fabio Capalbo, ma una sfida importante portata avanti su un terreno accidentato e sconosciuto, quello di exploit come il cortometraggio firmato da Hiro Muray per i Queens of the Stone Age, ma non solo.
L’armoniosa alchimia tra forma e contenuto, alla base di questa nuova Betty, dimostra che abbattere i muri del canone (tanto tematico, quanto tecnico) è possibile; che l’autarchia cinematografica degli ultimi anni va seppellita anche con l’apertura a linguaggi apparentemente alieni.

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