BFM42 – Incontro con Metod Pevec

Abbiamo incontrato l’ultimo ospite della sezione Europe Now! del Bergamo Film Meeting per parlare della sua multiforme carriera da attore, scrittore e regista

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È ed è stato un uomo di cinema a tutto tondo Metodo Pevec, regista sloveno classe 1958 passato prima per la carriera di attore e poi per quella da sceneggiatore. Quel che ha realizzato dietro la macchina da presa è stato però fondamentale nella storia di un paese che, dopo la dissoluzione della Jugoslavia, aveva bisogno di punti di riferimento e di figure che sapessero indicare nuove strade, nuove vie. Ragion per cui non sorprende che il cinema di Pevec, pur contraddistinto da elementi ritornanti come danza, musica e donne dal forte carattere, sia innanzitutto un cinema che guarda alla politica – nell’accezione primitiva del termine. Un cinema cioè in cui la relazione interpersonale è condizionata dalla società e dai suoi cambiamenti.

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Abbiamo incontrato l’autore sloveno in occasione del 42esimo Bergamo Film Meeting, per farci raccontare qualcosa in più di una carriera dalle mille forme.

Un percorso che tuttavia, come lui stesso ammette, sembrava potesse condurre su sentieri differenti da quelli cinematografici. “A volte da giovane inizi a fare qualcosa e non sai se è la cosa giusta, ti butti in qualcosa e poi chissà”, racconta Pevec; “posso dirvi che la mia primissima esperienza con il cinema è stata pessima, tanto che all’epoca decisi che non mi ci sarei più dedicato. Decisi quindi di iniziare a studiare filosofia e letteratura, ma siccome dovevo lavorare per mantenermi facevo il portiere notturno in un negozio; una sera ricordo che arrivò la chiamata di un assistente del regista Pavlović che mi diceva di volermi assolutamente per fare un provino per il suo film. Io inizialmente dissi di no, poi dal momento che insisteva accettai, sicuro che non ne sarebbe venuto fuori niente. Alla fine, al contrario di quanto pensavo, fui scelto come attore protagonista e il film ebbe un enorme impatto su di me perché Pavlović era un grandissimo regista. Quello era un film epico sulla seconda guerra mondiale e lui sul set era una sorta di generale, mentre invece con me era una persona estremamente gentile e generosa. Io rimasi davvero colpito dall’esperienza e pensai che fosse davvero un bel lavoro”.

Un incontro, quello tra Pavlović e Pevec, che avrebbe poi avuto ulteriore risonanza alcuni anni dopo, in occasione della presentazione del corto Everything is under control del 1992: “Ho girato in un momento in cui era appena finita la guerra in Slovenia e sarebbe di lì a poco iniziata quella in Bosnia. Io ero così rilassato per la fine della guerra che quel film è una commedia, anche se ovviamente non sapevo quel che sarebbe successo. La cosa interessante è che è stato una sorta di nuovo inizio con Pavlović, perché il mio corto fu selezionato per il festival di Rotterdam e io vidi che in programma c’era anche un film di Pavlovic. Io inizialmente mi sentii un po’ male, ma quando entrai in sala lo vidi a braccia aperte che mi aspettava, e lui urlò “allora c’è un dio!”. È stato davvero un mentore per me”.

Il primo lungometraggio del cineasta sloveno arriva però solo tre anni dopo, nel 1995. Carmen è un’opera dal processo creativo molto particolare, nata come sceneggiatura e poi trasformata dalle vicissitudini: “Il passaggio dal testo al film è esattamente quello che al momento io insegno alla scuola di cinema in Slovenia. Nel mio caso però si è trattato di qualcosa di diverso. Io per Carmen avevo già scritto la sceneggiatura e avrei avuto anche i soldi per realizzare il film, ma non c’era nessuno che volesse portare avanti il progetto. Addirittura avevo pensato di farlo girare a Pavlović, ma era il ’91 ed essendoci la guerra un regista serbo non era il benvenuto. Perciò lo script è rimasto inutilizzato per circa tre anni finché non ho deciso di scrivere il libro a partire dalla sceneggiatura. Dopodiché è nato anche il film. Film che è un adattamento di una storia vera. Io ho davvero incontrato una ragazza di nome Carmen, di cui non ero innamorato, ma che ammiravo molto. Ho passato tanto tempo insieme a lei e a un certo punto lei è sparita dalla mia vita; nel momento in cui è sparita io ho scritto la sceneggiatura”.

D’altronde quello di Pevec è innanzitutto un cinema fatto di incontri e relazioni su più livelli. “La relazione più importante”, sottolinea, “è quella con il produttore, perché per fare un film bisogna investire almeno un milione di euro e quando vengono investiti tanti soldi occorre fare il lavoro migliore possibile, il che non è facile. Io ho grande fiducia nel mio produttore perché so che quando ci imbarchiamo in un progetto riusciremo ad “attraversare il fiume” insieme e portare a termine il lavoro”. “Per quanto riguarda le coproduzioni”, prosegue, “c’è un doppio risvolto da tenere in considerazione. Le coproduzioni possono essere molto interessanti perché si ha la possibilità di avere punti di vista differenti. D’altra parte può anche essere scomodo, perché se ti trovi a girare in una location che dovrebbe rappresentare un posto di un altro paese la cosa diventa complessa, perché devi portare dietro tutta una serie di “materiali di scena” che rendano credibile la scena. È un cofinanziamento di cui talvolta non si può fare a meno, ma ha sicuramente pro e contro”.

Uno degli aspetti che l’autore preferisce è però il rapporto che si instaura tra regista e attore, “perché quando trovi interpreti con cui stai bene si crea una sorta di canale emotivo intimo preziosissimo. Non c’è bisogno di fare tante prove o spiegare più di tante perché l’attore che hai davanti capisce ciò che vuoi, ed è davvero un’esperienza bellissima”.

E a chi infine gli chiede dell’evoluzione del suo cinema tra il corto del ’92 e il suo ultimo lavoro datato 2019 (I am Frank) Pevec risponde così: “La più grande differenza tra i due lavori è che il primo era una commedia, mentre quest’ultimo non è affatto divertente. È un film molto serio che riflette su cosa è cambiato in Slovenia e come più in generale è stato recepito dai paesi dell’est il passaggio alla democrazia. In particolare il passaggio da quella che era la proprietà sociale, dello Stato, alla privatizzazione. Essenzialmente è un film sull’avidità, un qualcosa che prima non conoscevamo, ma che piano a piano si è impossessato della gente”.

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