Black Tea, di Abderrahmane Sissako

Il nuovo film del regista mauritano può sembrare un po’ lezioso ma in realtà sa lavora molto bene sulla lunghezza d’onda delle emozioni e sulla distanza della visione d’insieme. BERLINALE74. Concorso.

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Aspettando la felicità: sono passati dieci anni da Timbuktu e Abderrahmane Sissako si ripresenta (in Concorso a Berlino 74) con Black Tea per definire un mondo in cui agli esistenti si offre la scelta tra la menzogna e l’essere felici, tra la verità dei sentimenti e l’accettazione delle convenzioni. Il no detto sull’altare dalla protagonista Aya all’inizio del film è una determinazione di consapevolezza, non un atto di rivolta. Un gesto mirato a marcare il senso placido con cui Sissako pone il suo sguardo sulla realtà. Naturalmente tutto è sospeso in una rappresentazione che tende quasi a definire lo spazio reale in chiave ideale, come fosse il frutto di un pensiero della realtà differente e solo per questo problematico. Per essere un film che arriva oggi, nel nostro tempo disgraziato, Black Tea sembra quasi un arretramento della posizione del regista in una comfort zone dei sentimenti familiari, dove all’astrazione del cortile di Bamako, in cui si celebrava addirittura un processo contro la Banca Mondiale, si contrappone la sequenza iniziale del matrimonio di gruppo in Costa d’Avorio. E dove il tema dell’emigrazione diventa lo spazio ideale per l’affermazione di un principio di autenticità dei sentimenti, prima ancora che la ricerca di uno spazio fisico ed economico vitale.

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Ma questo è evidentemente un film che va dritto alla sostanza della questione: il diritto alla felicità come spazio di una conquista non individuale, ma trasversale, come condivisione di un sentire che deve appartenere a tutti, all’intera comunità che diventa quasi un corpo solido, unico e identitario, al di là delle etnie e delle culture. Sissako s’inventa quello che, se non fosse un luogo ben preciso come la provincia cinese di Guangzhou, con la numerosa comunità di africani immigrata negli anni ’90, potrebbe quasi sembrare uno spazio di fantasia: l’astrazione di un perimetro geopolitico in cui convivono idealmente africani e asiatici, in una mescolanza di culture e economie quasi irrealistica.  È qui che ritroviamo Aya dopo il no sull’altare pronunciato all’inizio nel nome della felicità sua e prima ancora del marito, che evidentemente la sta sposando per convenzione, senza amarla davvero. Lasciata la Costa d’Avorio, la giovane donna riappare nel negozio di tè di Cai, uomo dolce che le insegna l’arte di quella antica bevanda e segue implicitamente il filo del reciproco innamoramento che si dipana discreto nel corso dei giorni. Il matrimonio con la moglie è sostanzialmente (anche se non formalmente) finito, il figlio ventenne ha la maturità per guardare oltre le convenzioni, un’altra figlia mai riconosciuta grava da lontano sulla sua coscienza e Aya rappresenta per Cai quella serenità che del resto entrambi cercano.

Attorno brulica una vita che tiene insieme nel quartiere commerciale attività asiatiche e africane, in un sincretismo culturale che diventa la cifra espressiva e stilistica del film: tutto riluce di cromatismi e impianti scenici iperrealistici, in cui i giochi di riflessi smarginano i perimetri come a offrire un mélange visivo in cui lasciar confondere le forme. Tutto è immerso in una perenne notte che offre quasi una dimensione onirica all’intreccio di storie d’amore, di figure in cerca di serenità, dolcezza, felicità. È quasi uno spazio minnelliano, quello ricreato da Sissako a Taiwan, dove il film è in realtà stato girato, sembra di stare a Brigadoon, in un perenne stato di attesa del benessere che diventa la vera cifra narrativa ed espressiva del film. La narrazione procede lenta e incede senza darsi troppa pena di cercare una consecutio effettiva tra i blocchi narrativi e tra le sottotrame che sviluppa. La coralità sembra quasi una comune della narrazione identitaria, in cui i dolori, gli amori, le attese, le delusioni, le speranze le gioie sono offerte da Sissako come un pasto condiviso sulla mensa delle esistenze di ognuno e di tutti. Se qualcosa appare un po’ lezioso, se qua e là si rischia di ritrovarsi affaticati, è problema di poco conto nell’economia complessiva del film: Black Tea lavora sulla lunghezza d’onda delle emozioni, sulla distanza della visione d’insieme. E in quanto tale è un film che resta e che saprà dialogare col pubblico.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
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Il voto dei lettori
3 (1 voto)

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