#Cannes2016 – Poesia sin fin, di Alejandro Jodorowsky

La poesia in prima persona di Jodorowsky e’ prima di tutto una danza estetica e compiaciuta, ma pulsa sottopelle di una sensibilita’ struggente, di necessita’ prepotentemente intima. Alla Quinzaine

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La Quinzaine 2016 sembra averci preso gusto con le biografie reinventate e rimontate attraverso la fantasia ed il cinema, e a far seguito ai bei sogni di Bellocchio e al Neruda di Larrain arriva il secondo tassello del racconto autobiografico di Alejandro Jodorowsky dopo il fortunato La danza de la realidad, passato proprio sullo schermo del Marriott tre anni fa.
Il periodo lontano dalla regia cinematografica non ha scalfito il Mito di Jodorowsky, che anzi lo ha ramificato e radicalizzato spargendolo tra mille attivita’, i fumetti la psicomagia e tutto il resto. Considerare il corpus dell’autore come un movimento unico, per quanto impossibile da definire in maniera univoca, ci sembra la chiave piu’ coerente per affrontare un’opera come Poesia sin fin, esplosa ed eccentrica, legata probabilmente molto piu’ alla galassia espansa Jodorowsky che semplicemente all’aspetto cinematografico (qui mai tirato apertamente in ballo tra le arti predilette dal “poeta Alejandro”, che sperimenta invece le assi del teatro e del circo).

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In un’ottica simile, questa biografia per immagini in progress di fatto si pone come atto fondativo definitivo del culto di Jodorowsky, libro ufficiale di una vera e propria religione che sta cosi costituendo il proprio vangelo di aneddoti allegorici, leggende edificanti, dogmi inattaccabili. E’ un’operazione imponente in cui l’autore sta trasponendo tutti i piani della sua poetica creativa e tutti i mille rivoli del suo eclettismo, difficilmente assimilabile ad una esigenza seriamente narrativa quanto invece ad una chiara tradizione artistica.
Ogni sequenza finisce in questo modo non soltanto raddoppiata, come la frequente presenza in scena dell’Alejandro in carne e ossa al fianco del suo simulacro giovane e fittizio suggerisce apertamente, ma letteralmente moltiplicata per n, affollatissima di figure, movimento e fondali a vista, maschere, cartonati, nani, animali, amori e catastrofi, un procedimento a spirale che finisce per trasformare ogni verso cantato in un verso urlato.

Quanto urla infatti questa poesia senza fine, quanto rumore fa la memoria immaginaria di Jodorowsky, e i suoi ricordi ritoccati attraverso lo sguardo sempre vertiginoso di Christopher Doyle! Come nell’arte del racconto orale, ognuna di queste “storielle” potrebbe essere riraccontata, rivisitata all’infinito e risultare ogni volta diversa, arricchita di nuovi particolari e colori, inedita.
Jodorowsky mette in atto dunque una sorta di autoremix, rimasterizzazione di un intero immaginario/repertorio a cura dell’autore stesso, di cui e’ facile intravedere pericoli, dubbi e punti critici: e pero’ l’afflato testamentario sembra passare anche attraverso una specie di propaganda d’artista proprio per fare i conti con i demoni del proprio passato, parlare con il se stesso da ragazzo e con la sua testa calda, in grado di combinare disastri con la ragazza del migliore amico e collega di versi, e soprattutto pronunciare all’ombra del padre quelle parole di confessione e perdono che Alejandro non e’ mai stato in grado di dirgli dal vivo, avendolo salutato prima di partire per la Francia con l’astio di un conflitto che appariva insanabile.
E’ vero allora, la poesia in prima persona di Jodorowsky e’ prima di tutto una danza estetica e compiaciuta della propria ostinata unicita’, ma al contempo pulsa sottopelle di una sensibilita’ struggente, di una necessita’ prepotentemente intima e contagiosa.

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