#Cannes2016 – Voyage dans le cinéma français, di Bertrand Tavernier

Tavernier non analizza mai le sequenze come corpi-morti, rievoca solo passioni in film-vivi: il suo è lo sguardo di un uomo di cinema che da dentro parla, vive e ci fa vivere un “viaggio personale”

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Piccolo aneddoto: Bertrand Tavernier dice a Quentin Tarantino che molti film classici, da giovane, li ha visti a Parigi in un cinema che si chiama Far West… questo, ovviamente, suscita gli entusiasmi fanciulleschi del cinefilo americano esaltato dal “nome” di quella sala. Ecco, questa piccola confessione dispersa nelle tre “cortissime” ore di questo viaggio  nel cinema francese, ne racconta al meglio la filosofia di fondo: il Far West francese, la Frontiera immaginaria, non è uno spazio aperto. Il Mito diventa la sala cinematografica, i suoi spazi, i suoi riti. Ecco che una degli aspetti più interessanti di questo eccezionale e personalissimo viaggio è proprio la cartografia parigina delle sale dove Tavernier ha visto i film, ossia gli spazi dove lo schermo si apre al mondo e ne coglie l’essenza, la Storia, le storie, il presente e il possibile futuro. La culla di ogni Nouvelle Vague. La prima immagine del docuumentario, allora, non può che essere tratta da L’Atalante di Vigo: il film dove lo schermo si apre alle impressioni e ai fantasmi personali che in dissolvenza incrociano la vita. Insomma è evidente in Tavernier l’affezione profonda verso il “momento della sala” come tempo cinematografico per eccellenza, in un tempo, quello odierno, così ontologicamente frammentato.

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Impianto dichiaratamente scorsesiano (i due viaggi nel cinema americano e italiano sono i modelli riconosciuti), quindi in primo piano vediamo “inquadrata” una passione tutta personale per i film francesi dagli anni ’30 sino ai ’60, gli anni (prima) della rivoluzione. Tre “padri” in particolare diventano il fulcro dell’analisi di Tavernier: Jacques Becker, Jean Renoir e Jean Gabin. Due registi e un attore che hanno letteralmante forgiato l’estetica futura del cinema francese e il sentire comune condensato sul Grande Schermo. Becker “assorbe il grande cinema americano ma non lo copia”, in film come Grisbi o Le Trou riesce a creare un folgorante ibrido (il Polar) che svecchia d’un colpo il cinema da camera e consente nuove strade ai registi futuri.

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La Bête humaine, di Jean Renoir (1939)

Jean Renoir, invece, apre il set all’imprevisto e concepisce l’immagine come coalescenza di piani diversi a confronto, tirando dentro lo spettatore come parte attiva, utilizzando il piano sequenza e la profondità di campo. Da Une partie de campagne a La Grande illusion ha creato una nuova concezione di spazio. Gabin, invece, è il volto del cinema francese prima dell’epoca dei divi anni ’60, l’eroe popolare e “il mio personale passaporto per capire il Fronte Popolare”. Un volto scultoreo e orgoglioso, che nei film di Renoir, Carnè, Duvivier incarna il sentire francese del pre e post Seconda Guerra Mondiale, il passaggio verso un mondo e verso un cinema (la Nouvelle Vague…) che non sarebbe più stato lo stesso. Da qui il passo verso Jean Pierre Melville e François Truffaut, Louis Malle e Claude Sautet (gli altri padri di Tavernier) è ormai breve.

Interviste rare, materiale d’archivio originale dai set (bellissimo quello trovato su Le Doulos di Melville), folgoranti analisi su singoli movimenti di macchina, ecc… insomma questo documentario è un montaggio di sentimenti. Non tenta (solo) di restituire uno spaccato storico, ma vuole far scoccare la scintilla moderna che cinema francese ha prodotto nel cuore del Novecento. Tavernier non analizza mai le sequenze come corpi-morti, rievoca solo passioni cogliendole in film-vivi: il suo è lo sguardo di un uomo di cinema che da dentro parla, vive e ci fa vivere un “viaggio personale”. Il viaggio dell’emozione.

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