"Cesare deve morire", di Paolo e Vittorio Taviani

cesare deve morireDocumentario e fiction, bianco e nero e colore, epica brechtina ed e(ste)tica tradizionale del cinema marca Taviani si contaminano qui creando l’ennesimo film geneticamente “politico” dei due autori. Un film che rintracciando coraggiosamente l’umanità nel rimosso più inabissato della nostra società cerca ancora imperterrito di “cambiare le cose”. Cesare deve morire è cinema di sopravvivenza, cinema di confini, ma anche cinema che (ci) lascia dubbi(osi) all’interno del suo altissimo rigore formale. Orso d’oro a Berlino 62

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Cesare deve morire

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Sì, forse è così, forse Cesare deve davvero morire per l’ennesima volta. Morire e poi rinascere, nuovo o uguale a prima. Ma chi è Cesare? Cesare è ovviamente il grande generale romano, il Padre, il personaggio shakespereano, ma forse anche il vecchio cinema italiano o la babele di meccanismi incancreniti che ne ingrippano il nuovo. E allora facciamolo morire nuovamente questo Cesare sembrano dire i due eterni sovversivi Paolo e Vittorio Taviani: un film prodotto in maniera indipendente, rifiutato da molte distribuzioni, accettato solo lo scorso novembre dalla Sacher Film di Moretti e infine incensato unanimemente per il suo recente trionfo a Berlino. “Una vittoria per tutto il cinema italiano” si è detto…

Partendo dalla vera rappresentazione teatrale del regista Fabio Cavalli nel carcere di Rebibbia (il Giulio Cesare di Shakespeare recitato dai veri detenuti all’interno di un programma del Centro Studi Enrico Maria Salerno) i Taviani assorbono l’evento e tutta la preparazione, lo confinano in una sceneggiatura e ne cortocircuitano i codici di messa in scena – provini, prove e spettacolo che danno origine al cinema sotto i nostri occhi come nelle regie di Al Pacino – cercando attimi di "evasione" negli interstizi di questi tempi morti. Rinchiudono lo sguardo in un carcere fingendo di concepire un documentario, con l'evidente intento di piantare il seme dell’arte nella terra più dura di un Paese. Cesare deve morire diventa così un film di confini continuamente marcati: in primis con il mondo esterno diventato alieno e impossibile da scorgere, oltre quelle finestre a sbarre che filtrano luce e sovraespongono costantemente la bellissima fotografia di Simone Zampagni (in una dinamica non lontana dall’ultimo Olmi, regista per molti versi distante dai Taviani, ma curiosamente qui accomunato da simili scelte formali e filosofiche). Ancora il confine tra documentario e fiction, bianco e nero e colore, epica brechtina ed e(ste)tica tradizionale del cinema marca Taviani: la voglia di evasione tutta ideologica di Marcello Mastroianni in Allosanfan (il rosso acceso e saturo del palcoscenico sembra provenire direttamente dal film del 1974) contrapposta alla lenta e tortuosa (ri)educazione alla vita di Gavino Ledda in Padre Padrone. Tutto il loro cinema precedente diventa qui il “negativo” di una pellicola che non c’è piùCesare deve morire (si è passati gioco forza al digitale…), ma che produce un riflesso “positivo” dall’identico afflato politico. Ecco, da questo punto di vista, Cesare deve morire è l’ennesimo film geneticamente politico dei due autori, un film che rintracciando coraggiosamente l’umanità nel rimosso più inabissato della nostra società cerca ancora imperterrito di “cambiare le cose”.

 
Ma – nel bene e nel male – questo è anche un film sul dubbio. Il dubbio degli stessi registi che dichiarano di essersi sentiti in lotta con i loro sentimenti nei confronti di persone (i detenuti/attori) diventate care ma comunque colpevoli di reati gravissimi. Il dubbio su cosa sia veramente "redenzione" (che è uno degli assi portanti dello stesso testo shakespereano) nonché sul valore salvifico dell’arte in questo nostro presente. Ma è anche un dubbio tutto nostro, di spettatori: qui ci si trova dalla prima inquadratura a fronteggiare un’immagine curatissima, studiata nei dettagli, blindata nel suo geometrico alternarsi tra bianco e nero (passato) e colore (presente). Ed è qui che sorge il dubbio se la passionale libertà anelata dall’ottimo Salvatore Striano (Bruto) non la si poteva/doveva cercare negli scarti dell’immagine, nelle incongruenze, persino nelle sgrammaticature di una vita così vera ripresa in scena. Insomma, se la commovente evasione sentimentale che i detenuti inseguono non sia stata sin troppo bilanciata da un rigore formale che imbavaglia il loro impeto in una preventiva riflessione a monte. Rimane pertanto la straniante sensazione di un film forse troppo “perfetto” per colpire al cuore, ma nello stesso tempo fieramente necessario per il suo anacronistico ed ammirevole coraggio. In ogni caso, a differenza di Cesare, il cinema di Paolo e Vittorio Taviani è ancora decisamente Vivo.

 

Regia: Paolo e Vittorio Taviani

Interpreti: i veri detenuti del carcere romano di Rebibbia

Origine: Italia, 2012

Distribuzione: Sacher

Durata: 76'

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