Chi sceglie cosa vediamo?

In Italia riaprono le sale e ripartono gli eventi, ma la sensazione è che film, distribuzioni e schermi continuino a mancarsi l’un l’altro. Ne abbiamo discusso con gli esercenti indipendenti

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Se c’è una cosa che chi gestisce una sala indipendente e chi cura piccoli festival o eventi in Italia impara presto a conoscere è la ritrosia – per così dire – delle case di distribuzione nel concedere i film. Ogni programmer vorrebbe poter selezionare libero da limitazioni o censure, decidendo in prima persona quando e per quanto tempo proporre un film al proprio pubblico, ma spesso non può farlo. Il botta e risposta tra i Ragazzi del cinema America da un lato e Anica ed Anec dall’altro, cui è seguita una diffida di Anica per lo spazio avuto su La7 nel programma Propaganda Live in cui sono tornati a denunciare il presunto comportamento ostile di Anica ha l’effetto di portare la questione ad un pubblico più vasto, quello formato dalle persone che frequentano soprattutto le arene gratuite. Ma se lo scambio tra i Ragazzi e quelle e le cosiddette lobby der cinema appare come uno scontro tra influencers e boomers, la questione in realtà non è nuova, come testimonia una lettera pubblicata da esercenti indipendenti il mese scorso. Questione che riguarda la programmazione delle sale tutto l’anno, quindi soprattutto le sale al chiuso in cui si entra con un biglietto a pagamento. Scrivono gli esercenti indipendenti nella lettera: «Le scelte di programmazione, sia in vista del servizio sociale e culturale sia in vista dell’ottimizzazione dei profitti, dovrebbero partire da chi conosce il territorio e il contesto, concordando sì strategie con i distributori, ma senza dover sottostare a limiti contrari alla diffusione capillare della cultura cinematografica». Abbiamo chiesto ad alcuni esercenti e operatori culturali indipendenti una riflessione a partire dalla propria esperienza in merito.

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Umberto Parlagreco, proprietario e programmer del Multisala Iris di Messina, ben 5 sale, dice: «Una delle parole chiave della nostra lettera è curatela. Per poter costruire una programmazione ideale abbiamo bisogno di una libertà che ad oggi non abbiamo. Non abbiamo la libertà di poter fare, ad esempio, una vera multiprogrammazione: è rarissimo riuscire ad avere nella stessa sala il pomeriggio un film di animazione o un altro film per ragazzi e di sera un film per un pubblico più adulto. Ma non si tratta solo di questo. Per me che gestisco una multisala a forte vocazione commerciale, alle volte è complicato non farmi imporre condizioni e programmazioni dalle major. È vero che se una casa di distribuzione ti dà dei film che incassano, poi vuole che gli si programmino anche film minori, ma alle volte si esagera: lavoro a Messina, dove prima del Covid-19 c’erano 22 schermi, spalmati su 3 strutture e 11 di questi schermi appartenevano ad un UCI, mentre gli altri 10 ce li dividiamo io e il mio concorrente. Ebbene, ci sono film che escono in tutte le strutture e le cui teniture sono assurde. Un esempio? Il traditore, di un anno fa: 5 settimane senza doppi programmi, per una piazza la cui vita media di un film è di due settimane. In questo modo diventa difficilissimo trovare uno spazio anche per i film indipendenti, quei film di qualità che se programmati con una certa costanza possono favorire l’alfabetizzazione cinematografica del pubblico. Cosa che peraltro farebbe bene anche al mercato.»


Serena Agusto della Sala Truffaut di Modena, alla nostra domanda rispetto ai film non concessi replica: «Capita a tutti. A volte gli esercenti eccedono nelle richieste di esclusiva e i distributori hanno strategie non sempre comprensibili: a volte funzionano, altre volte no, ma resta un loro diritto non concedere i film.»

E Alberto Surrentino, programmer del multisala King e dell’Arena Argentina a Catania: «Non abbiamo problemi con proseguimenti e repertorio, mentre sulla prima visione qualche problema lo abbiamo avuto. Più in passato che in questo specifico anno».

Con Silvia Jop, direzione artistica della rassegna Isola Edipo che si svolge durante il festival di Venezia, ci spingiamo in un ragionamento più articolato: «Credo che la situazione generata dalla pandemia e dalle conseguenti misure di contenimento abbiano fatto esplodere le contraddizioni che riguardano una parte consistente sia dei nostri spazi soggettivi che di quelli collettivi. Voglio dire: gli squilibri, le contraddizioni e le conflittualità con cui ci stiamo confrontando in questi mesi in Italia per quanto riguarda il mondo delle arti sono le medesime che molte e molti di noi vivono da decenni sulla propria pelle. Mi riferisco, per quanto riguarda ad esempio il cinema indipendente, all’intera filiera che ne costituisce l’ossatura. Le difficoltà, l’inesistenza di misure di tutela per quanto riguarda i processi di ideazione, realizzazione, produzione, distribuzione e infine proiezione (nello specifico in sala) cinematografica, sono per tante e tanti di noi all’ordine del giorno. Paradossalmente il Covid-19 (non in quanto virus ma in quanto sintesi di un’esperienza sociale planetaria) ha reso tutto questo oltre che ancora più doloroso e ingestibile anche più facilmente leggibile. Penso che sia importante quindi oggi più che mai sostenere esperienze collettive di confronto e sensibilizzazione capaci di costituire potere contrattuale a categorie professionali e ambiti di produzione artistica mortificati da un vuoto politico e culturale che definirei atomico. Ben vengano quindi lotte politiche che passano da raccolte firme (come nel caso degli esercenti indipendenti assieme ai distributori) e da dibattiti accesi attorno alle contraddizioni che esplodono letteralmente in un momento come questo tra chi cerca di realizzare una rassegna estiva gratuita e alcuni rami della filiera, che, soffocata dall’insostenibilità di costi e dall’assenza di tutele, sostiene che quella parallela gratuità rischi di indebolire ulteriormente l’efficacia del proprio lavoro. Le conflittualità che esplodono in seno alle contraddizioni, se portano a reali confronti tra prospettive differenti, non possono che generare una crescita di sistema complessiva. Il problema in questo caso però è che continua ad esserci un grande assente che invece potrebbe portare a un salto di paradigma che fatica a verificarsi: lo Stato dovrebbe mettere in atto politiche pubbliche che mettano al riparo le culture indipendenti di questo paese, che costituiscono veri e propri spazi di genesi e contaminazione culturale libera dalla schiavitù del mercato, garantendo sostegni, strutture e infrastrutture. Parallelamente a questo, credo, anche noi dobbiamo fare la nostra parte e anziché alimentare una cultura dicotomica come ad esempio quella dello streaming contro la sala, dovremmo capire che oggi a differenza di cinquant’anni fa disponiamo di una risma di linguaggi che possono non concorrere tra loro ma complementarsi.»

Dice inoltre Parlagreco: «Essendo proprietario, ho anche un problema di tassazione: pagare quasi 40 mila euro l’anno di IMU era difficilissimo prima, immagino diventerà un problema alla riapertura. Però credo che questo lockdown qualcosa di buono lo abbia prodotto: la lettera aperta ci ha fatto conoscere, incontrare (seppur virtualmente, ancora). Abbiamo fatto rete. Non so se questo influenzerà in qualche misura il modus operandi del sistema cinema in futuro, ma mai come in questo periodo, confrontandomi con colleghi che hanno più o meno i miei stessi problemi e la mia stessa passione, mi sono reso conto di quanto ci sia bisogno di un rinnovamento di idee, di stare al passo con i tempi. Tempi in cui l’informazione viaggia alla velocità della luce, in cui il Cinema deve continuare ad essere il tempio del Film, ma deve avere gli strumenti per poter aggiornare i suoi rituali».

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