Cinema Svizzero Contemporaneo – Al-shafaq, di Esen Isik

Nella migliore tradizione del cinema mediorientale, il film sa catturare negli indugi della macchina da presa il carattere dei personaggi. Dalla rassegna di Cinema Svizzero della Cineteca di Milano

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Al-shafaq in arabo significa crepuscolo la traduzione dal tedesco del titolo è “quando il cielo si divide”. In questa metafora che guarda al compiersi di un destino, allo sguardo verso un mondo celeste che per le religioni costituisce il raggiungimento di una agognata perfezione e quindi di un premio per una irreprensibile vita terrena, sta il senso di un film semplice, ma non semplicistico, come Al-shafaq di Esen Isik film in programmazione nella rassegna di Cinema svizzero ospitata dalla Cineteca di Milano.
Burak vive in Svizzera con la famiglia. Radicalizzato jiadista parte per la Siria dove perderà la vita in guerra e suo padre Abdullah dovrà recuperarne il corpo. Il viaggio sarà l’occasione per riconsiderare l’intera sua vita e quella del figlio e proverà a ricominciare esattamente dal punto in cui ha cominciato a perdere di vista ciò che davvero conta. Porta con sé Malik un bambino rimasto orfano e senza famiglia, smarrito dopo la fuga dal campo profughi, vittima di quella sanguinaria guerra che dovrebbe difendere la loro religione.
La regista del film Esen Isik, turca di nascita, ma svizzera d’adozione, dopo una gavetta nel mondo del cortometraggio, ha realizzato il suo primo film lungo nel 2015. Köpek è un racconto di tre storie nelle quali l’autrice sintetizza il senso di un profondo pessimismo che nutre nei confronti della società turca, oppressa da pregiudizi e dalle esclusioni, piuttosto che indirizzata verso l’inclusione. Il film ha anche un legame con il nostro Paese poiché è dedicato all’artista italiana Pippa Bacca violentata e uccisa in Turchia nel 2008.
Al-shafaq, suo secondo lungometraggio non abbandona gli scenari mediorientali e ponendosi trasversalmente rispetto alla tragedia siriana e alla devastante guerra che ha martoriato quel Paese, racconta, attraverso la filigrana di due storie familiari, il mondo giovanile e quello infantile dentro la tragedia bellica. Le vicende dei due nuclei familiari, sono connotate dalle fughe e da una precarietà esistenziale per la famiglia di Malik e dal tentativo di resistenza ad un fanatismo religioso invadente nella famiglia di Burak. I genitori pur restando fedeli agli insegnamenti dell’Islam con Abdullah particolarmente contento che il figlio frequenti i luoghi sacri, dissentono dalla piega radicale che Burak, infatuato dai sermoni che ascolta nella Moschea, ha voluto prendere.
Nonostante il peso specifico dei temi nella trasposizione narrativa tutto si trasforma nei gesti minimali e quotidiani. Le immagini di Esen Isik riescono a trasmettere, con una sotterranea intensità, gli interrogativi e le esitazioni dei personaggi che ruotano attorno a Burak, un certo senso di atavica non appartenenza che egli sente verso il mondo occidentale, al contempo, l’occlusione del mondo infantile, la privazione di ogni piccola gioia, di ogni svago nel mondo già adulto di Malik che adatta la propria vita a quella condizione impietosendosi per i due uccellini che come lui vivono in gabbia. Malik è un personaggio che si fa ancora più indifeso e fragile nei primi piani che seguono il suo fantasticare con sullo sfondo la povertà e le miserie delle tende del campo.
Questi stessi sentimenti si riflettono nelle rispettive sequenze domestiche che si fanno consuete in quell’ottica di racconto diaristico e accompagnano gli sguardi sulla famiglia islamica laddove, invece, l’insormontabile quotidianità più difficile del vivere caratterizza le giornate della scomposta famiglia dei profughi.
L’intero impianto filmico, sa essere coerente con questa narrazione quasi silenziosa e, nella migliore tradizione del cinema mediorientale, sa catturare, negli indugi della macchina da presa, il carattere dei personaggi, il penoso smarrimento infantile davanti ad un evento incomprensibile come la guerra, la progressiva preoccupazione familiare nei confronti del figlio che sceglie la via della violenza religiosa e il dolore paterno nell’incontro con il cadavere del figlio.
Il cielo si è già diviso, in verità, perché è la guerra che lo divide in quel crepuscolo dell’esistenza che non trova la via verso la luce. Al-shafaq sembra volere ricongiungere gli estremi della vita e della morte e in un celato pessimismo tutto deve per forza risolversi in quella sequenza finale che chiude l’obiettivo davanti alla frontiera che separa la Siria dalla Turchia in un viaggio di ritorno senza progetti, quasi senza futuro, su una linea di confine che è terra di nessuno, là dove restano appese le domande sull’esistenza e sul finale e incomprensibile disegno di Dio.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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