Favoloso Calvino – Il principio della visibilità

Cinema, musica, arte metafisica: l’universo di Calvino si espande in questa mostra alle Scuderie del Quirinale a Roma che ci permette di conoscere più da vicino una delle grandi voci del Novecento

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Andrebbe forse cercata una nuova parola per descrivere queste “mostre” (non-mostre, come potrebbe definirle il sociologo Augé), che mettono in atto una vera e propria anatomia degli autori o delle autrici approfonditi/e.
Manoscritti, libri gelosamente autografati, lettere, appunti, scarabocchi, articoli di giornale… L’universo più intimo si dispiega attraverso questi oggetti spolverati e messi in vetrina (sensazione che ricorda quei romanzi epistolari francesi di fine Settecento, dove il lettore è quasi un voyeur).
Nel “percorso” alla scoperta di Calvino, alle Scuderie del Quirinale, al visitatore vengono concesse certe libertà alle quali non siamo più abituati. Non ci sono lancette pronte a scoccare, che dettano i tempi dello sguardo e inviano alla prossima opera – come è avvenuto con Raffaello. Questa libertà rispetta lo stile dell’autore – si può leggere tutto, come non leggere niente, passare dalla prima sala all’ultima, dalla terza alla penultima; ci si può fermare nel grande bar sospeso tra i due piani, ammirare il paesaggio della città visibile quanto estranea (come ogni città appare dall’alto).
Fausto Melotti, la cui arte “leggera” rievoca la filosofia di Calvino (anzi, la ispira: “Un paio d’anni fa ho visto le sculture di Melotti e mi sono messo a immaginar città filiformi, sottili, leggere, come quelle sculture”), introduce lo spettatore a questa passeggiata in cerca dello spazio e delle geometrie degli scritti che ci hanno segnato, o che non ci hanno ancora segnato… La prima opera che vediamo s’intitola “Scultura A (I pendoli)”, ed è del 1968, una silhouette in ferro, sottile e impalpabile.

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I pendoli, Fausto Melotti

Parole proiettate sul muro si sgretolano, lasciando per un attimo sospese lettere arbitrarie, che non significano niente, per svanire nel nulla, e poi subito ricomporsi: “Dall’opaco” (1971) è il testo scelto come incipit di questo itinerario dal sapore letterario quanto perverso.
“Io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (…) Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quel che vuol sapere, e Glielo dirò. Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura.” Così scrisse Calvino in una lettera a Germana Pescio Bottino, il 9 giugno del ’64.
Opaca infatti dev’essere la nostra visione sulla sua vita – e così la mostra ci mostra senza mostrare del tutto, tenendoci alla giusta distanza, “nell’opaco rovescio del mondo”.
Una panoramica sulla sua vita – sulle sue città – tra Sanremo, Torino, Roma e Parigi si sposta poi sulla vita dei suoi familiari: Mario Calvino, il padre (titolare della Cattedra di Agricoltura; nel 1908 implicato in un caso internazionale: un anarchico russo, condannato a morte per un fallito attentato contro lo zar Nicola II, era in possesso di un passaporto intestato a Mario Calvino. Di qui la decisione di accettare un incarico in Messico…), e Eva Mameli Calvino, la madre (la prima donna a conseguire la libera docenza in botanica presso un’università italiana).
Nell’archivio dei genitori, la formica argentina ha una certa rilevanza ed è l’installazione a parete di Emilio Isgrò (La formica argentina, 2023) che si abbina al racconto “più realistico” di Calvino (La formica argentina, 1952); o meglio, ne “cancella” le tracce.
La passione dell’autore per il cinema non dovrebbe sorprenderci, “Ci sono stati anni in cui (…) il cinema è stato per me il mondo. Un altro mondo da quello che mi circondava, ma per me solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva le proprietà d’un mondo, la pienezza, la necessità, la coerenza mentre fuori dello schermo s’ammucchiavano elementi eterogenei che sembravano messi insieme per caso, i materiali della mia vita che mi parevano privi di qualsiasi forma.” (Autobiografia di uno spettatore, 1974)
Da I Lancieri del Bengala (1935) a Gli ammutinati del Bounty (1935), alle commedie giallo-rosa con Mirna Loy e William Powell e il cane Asta (L’uomo ombra, 1934); i musical di Fred Astaire e Ginger Rogers (Roberta, 1935); i gialli di Charlie Chan; i film del terrore con Boris Karloff e, fondamentale Pepe le Moko (1937) “dopo aver visto la Casbah di Algeri guardavo con altri occhi le vie a scale della nostra città vecchia”.
Alle opere che si sono ispirate all’universo calviniano, si intrecciano quelle che l’hanno ispirato; “Insomma c’è un velo d’altre immagini che si deposita sulla sua immagine (…) un peso di ricordi, ricordi altrui che restano sospesi come il fumo sotto le lampade”.
La sua gioventù, fortemente segnata dall’esperienza partigiana, è la scoperta del paesaggio, l’aprirsi agli spazi esterni: “Sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione; e i comunisti erano la forza più attiva e organizzata”. L’arte povera di Giuseppe Penone illustra quel cammino, “lo spaccato di un legno, in cui si possono seguire come corrono le fibre, dove fanno nodo, dove si diparte un ramo”: Spazio di luce, 2008.
Calvino collabora con il gruppo musicale torinese “Cantacronache”, raccontando l’esperienza della Resistenza in Oltre il ponte (1958). Lo sfondo musicale presente in sala è la versione del 2005 interpretata da Moni Ovadia con i Modena City Ramblers mentre i disegni a inchiostro di china di Renzo Vespignani (Dimostrante ucciso, 1946; Tortura, 1948; Vittima del bombardamento, 1943) ci rituffano nel passato.
I famosi ritratti di Calvino di Tullio Pericoli, insieme alle fotografie a forte contrasto (“quasi calligrammi”) di Carlo Gajani (Ritratto-Identità-Maschera, 1976), e agli oli su tela di Carlo Levi, ci scrutano mentre osserviamo dei volumetti, America di Kafka, Ossi di seppia di Montale, Fosca di Iginio Ugo Tarchetti, La principessa di Clèves di Mme de Lafayette, La linea d’ombra di Conrad (su di lui Calvino scrive la tesi di laurea nel ’46, “Amo Conrad perché naviga l’abisso e non ci affonda”), I piccoli borghesi di Balzac, per citarne qualche d’uno.

Ritratto-Identità-Maschera, di Carlo Gajani

Nascono quasi per caso, “I nostri antenati”, che qui rivivono attraverso i disegni di Emanuele Luzzati ispirati a Il visconte dimezzato, la copertina de Il barone rampante progettata ed illustrata da Domenico Gnoli (di Gnoli segnaliamo anche Lady’s Feet, 1969, olio su tela situato al secondo piano), l’armatura cavalleresca che rievoca Agilulfo…
A plasmare l’immaginario calviniano è di sostanziale importanza Paul Klee (che l’autore cita anche esplicitamente ne La speculazione edilizia, “Una farfalla notturna, con grandi ali dai disegni grigi, minuti, marezzati, ondulati, come la riproduzione in nero di un Kandinsky, no: d’un Klee”).
Continuiamo il viaggio, salendo la scala a chiocciola ed entriamo così nel mondo delle Cosmicomiche. I due globi di Luigi Ghirri, così come i disegni di Emilio Tadini (un castello capovolto, un’elegante figura femminile senza testa) illustrano i racconti narrati dal vecchio Qfwfq. Richard Serra e Marina Apollonio (Dinamica circolare, 1969) rendono omaggio a Calvino, reinterpretando il Big Bang e la forma dello spazio.
Proprio come l’inchiostro dell’autore, Escher e De Chirico giocano con lo spazio, in un excursus metafisico che Calvino descrive nel saggio Viaggio nelle città di De Chirico.
I preziosi tarocchi quattrocenteschi di Bonifacio Bembo, insieme al mazzo de L’Ancien Tarot de Marseille (1751) di Claude Burdel fanno da guida all’autore nell’intricato mondo de Il castello dei destini incrociati.

Bonifacio Bembo, La Torre

Si è celebrato così il centenario di Calvino; la sua penna che ha saputo percorrere l’infinito a zigzag, con leggerezza, con rapidità, con esattezza e con molteplicità, ha sempre ritrovato nella sua fantasia una coerenza – si augurava che anche noi, posteri, saremmo riusciti a seguire queste lezioni, di vita, di virtù; a “dare spazio a chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno”.

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