FCE18 – Lo sguardo frammentato dell’Europa. Per una riflessione transnazionale

Molteplici le prospettive proposte dai film in concorso all’ultima edizione della rassegna leccese. L’approccio locale si allarga alla dimensione esistenziale dell’uomo, tra passato e presente

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Che Agnieszka Holland abbia ragione quando sostiene che negli ultimi anni il cinema europeo sembra essere tornato ad occuparsi delle questioni del presente e a manifestare una varietà stilistica e tematica più al passo con i tempi? La XVIII edizione del Festival del Cinema Europeo propone, tra le sue sezioni, film che offrono una pluralità di sguardi, prospettive ed interpretazioni su argomenti quanto mai attuali come immigrazione, omosessualità, “esilio interiore”, famiglia, pregiudizio razziale e spettacolarizzazione mediatica della realtà. La politica resta sullo sfondo, ma la società ne riflette pienamente la deriva. Non sempre, va detto, c’è un messaggio esplicito e talvolta la densità di letture non sembra suggerire un percorso univoco – una “mancanza” che piacerebbe, evidentemente, a Nuri Bilge Ceylan e alla sua ricerca del senso, al suo “cinema dell’uomo sull’uomo”. In altri casi, la morbida e più o meno sofisticata veste della commedia edulcora ed attenua la vis polemica, finendo con il coprire la “nuda e dura pelle” di uno spaesamento generazionale e di una disintegrazione del sistema di valori. Sono pellicole imperfette, a tratti acerbe come si conviene, in molti casi, ad opere prime o seconde, ma animate da genuino entusiasmo ed apprezzabile coscienza del mestiere. E sono film che testimoniano la frammentazione del centro e la vitalità dello sguardo locale. La lente d’ingrandimento è quasi sempre focalizzata sul territorio, sullo spazio di osservazione geografico del regista, sull’approfondimento di costumi, abitudini ed atmosfere “tipiche” di quella comunità, di quel popolo, di quella nazione. Perché, in fondo, è di queste insopprimibili e millenarie istanze comunitarie che la grande Europa si compone.

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madeL’irlandese Darren Thornton, al suo primo lungometraggio dopo due corti (Frankie, 2007; Two Hearts, 2011), affronta tematiche come la disillusione dell’età matura, il significato dell’amicizia e la scoperta della propria sessualità. A Date for Mad Mary è un tenero ed insieme crudo dramma irlandese ed è stato presentato in concorso nella First Feature Competition del 60° BFI London Film Festival. Mary e Charlene sono due amiche cresciute a Drogheda, cittadina industriale e portuale sulla costa orientale dell’Irlanda, 56 km a nord di Dublino. Mary è appena uscita di prigione dopo aver scontato sei mesi per una rissa, Charlene sta per sposarsi. Il rapporto tra le due vive momenti di tensione e di aspro confronto, con Charlene che rimprovera all’amica di non voler crescere e di rovinare tutto ciò che ha intorno a causa del suo temperamento aggressivo ed immaturo. Per non essere da meno delle altre damigelle d’onore invitate alle nozze, Mary si prefigge di trovare un uomo che la accompagni al matrimonio in veste di fidanzato. La ricerca, non troppo convinta, si rivela infruttuosa, ma dà modo alla giovane di comprendere alcune cose importanti: il bisogno di essere accettata ed ascoltata senza pregiudizi e, soprattutto, la scoperta – o meglio, una maggiore consapevolezza – dell’attrazione sessuale e sentimentale per le donne. Sarà infatti Jess, la videomaker ingaggiata per filmare il matrimonio di Charlene, a scuotere emotivamente Mary e a farla sentire in sintonia con le pulsioni più profonde del suo animo. Nel corso dei loro incontri, le maniere brusche e riottose di Mary e la sua apparente sociopatia lasciano infatti il posto ad una delicata vulnerabilità di fondo. Scritto dal regista insieme al fratello Colin, il film è un adattamento del monologo teatrale 10 dates with Mad Mary della scrittrice ed attrice Yasmine Akram, nota per il ruolo di Janine Hawkins nella terza stagione della serie televisiva britannica Sherlock (2010 – in produzione). Il film mescola con efficacia un ritratto crudo e disilluso del conformismo di un piccolo centro irlandese e delle convenzioni sociali che intrappolano i giovani, portandoli ad esprimere in atteggiamenti rabbiosi e violenti il carico delle proprie insoddisfazioni, con accenti da commedia sentimentale condita di spruzzate di satira sociale, con un tocco di humour nero ed un certo gusto citazionista. L’ambizione neppure tanto velata di un racconto di formazione contemporaneo attraverso le tappe tradizionali della famiglia, degli amici e del sesso resta confinata sullo sfondo e non si affranca pienamente da qualche stereotipo narrativo che appiattisce, in alcuni tratti, uno sviluppo drammaturgico comunque interessante. Affascina il contrasto tra le strade brumose  e fredde della città notturna e le tonalità calde della fotografia di Ole Bratt Birkeland, tra il rosso invitante delle insegne dei locali e il grigio deprimente di un cielo di provincia. Il ritornello della sensuale canzone che Jess interpreta nel pub “McPhail” – “Andiamocene da questo posto” – sembra insieme un dolce appello a Mary, che la osserva tra il pubblico, a fuggire insieme per coltivare liberamente i propri sentimenti ed un’amara presa di coscienza delle gabbie che la società ci impone. La sequenza in cui Mary, a lavoro in una tavola calda, si trova faccia a faccia con la vittima del suo attacco, è forse il momento drammatico più coinvolgente della pellicola, interamente giocato su un silenzio assordante e su sguardi affilati come rasoi e dolorosi come stilettate, in un istante lungo un secolo che ci inchioda davanti all’ineluttabilità del proprio passato in una piccola città tribunale dove tutti si ergono a giudici, testimoni o platea che orienta il verdetto. Brilla l’interpretazione di Seána Kerslake (Dollhouse, 2012), che regge per lunghi tratti la pellicola sulle sue spalle con una prova sorprendente per intensità e credibilità. Dice il regista: “Davanti alla sua recitazione così onesta e senza filtri, ho fatto un passo indietro e ho pensato che anche la regia dovesse rispecchiare quella qualità. Con il nostro direttore della fotografia, Ole Birkeland, si è iniziato a parlare di un’immagine immobile, della creazione di uno spazio in cui l’azione si collocasse al centro, in posizione frontale, libera da forzature. Andando avanti nelle riprese, ci era sempre più chiaro che dovevamo partire dal primo piano di Seána e da lì creare tutto il resto”.

homePresentato in anteprima internazionale nella First Feature Competition del 20° Black Nights Film Festival di Tallinn, Home is Here segna l’esordio nel lungometraggio della regista, sceneggiatrice e curatrice d’arte austriaca, di origine ceca, Tereza Kotyk (autrice di due corti, Hannah At Home e Hannah And Max, 2014). La pellicola racconta la storia di due personaggi che non si incontrano mai di persona, ma che instaurano un particolare legame giocato sulla ricerca di un senso e di un impulso che li aiuti a trovare una propria collocazione nello spazio e nel tempo della vita. La giovane Hannah (Anna Åström) è cresciuta in Germania, ma è tornata a vivere temporaneamente con la madre e il fratellino nel villaggio olimpico di Innsbruck. Un giorno si introduce in casa di Max (Stipe Erceg), un taciturno uomo d’affari che abita da solo in una moderna villa. Le “visite” si fanno sempre più frequenti e l’uomo, al rientro in casa, comincia a notare dei piccoli cambiamenti nella disposizione degli oggetti. Fra i due si instaura una stravagante forma di comunicazione che, alla fine, fa capire ad entrambi come nella vita sia inutile mettersi alla ricerca di un particolare luogo o rapporto, perché è solo dentro se stessi che si può trovare la propria casa. La Kotyk realizza un film di silenzi nel presente e di cesure con il passato, ricorrendo ad un approccio formalista ed insieme ermetico che impegna lo spettatore nell’opera di ricostruzione storica e psicologica dei personaggi. Poco o nulla sappiamo di Hannah e di Max: il loro carattere schivo, la loro gestualità algida e sobria e l’assenza pressoché totale della loro voce sono indicatori di due persone impegnate in un difficile processo di metabolizzazione del proprio passato. Gli esigui squarci narrativi presenti nella pellicola forniscono qualche elemento, lasciando intendere la profonda solitudine emotiva dei protagonisti: quella di un’adolescente che si è auto-confinata in una forma di “esilio interiore” – specchio di uno sradicamento esteriore, familiare e sociale – e quella di un uomo onerato di responsabilità sul lavoro e alle prese con una difficile e tormentata relazione amorosa da poco conclusa. Hannah sembra appropriarsi e voler lasciare un’impronta in questa casa dalle geometrie perfette e dagli ambienti razionalmente disposti: accende il riscaldamento, mangia delle praline costose, capovolge i bicchieri, arrotola i tappeti e guarda la scatola di ricordi personali di Max, trovando le foto della sua ex amante, una famosa fotografa. Max, a sua volta, sembra incuriosito, più che spaventato, da questo intruso che irrompe nella routine della sua vita e porta scompiglio nell’ordine calcolato della sua casa di vetro e acciaio. La macchina da presa è il diaframma tra la solitudine interiore e il silenzio della casa, si sofferma sulle strutture e sugli ambienti della villa, ne cattura le superfici sintetiche e la sostanza materica, coadiuvata dalla nitida fotografia di Astrid Heubrandtner-Verschuur, in un percorso di scoperta che la presenza di Hannah rende quasi sinestetico attraverso il dato tattile, olfattivo, acustico e visivo. Il silenzio della parola è riempito con approccio impressionistico dall’accattivante melodia del pianoforte della compositrice ceca Markéta Irglová (premio Oscar nel 2008 per la Miglior Canzone, Falling Slowly, dal film Once di John Carney). Home is Here indaga fin dal titolo il tema universale e complesso della casa nella sua duplice natura di abitazione e di corpo, di luogo reale e di dimensione spirituale. L’assenza di dialoghi rende ancora più scarna una trama già esigua e si prende il rischio di eccedere nella concettualizzazione visiva e metaforica del dramma psicologico dei due protagonisti. La tediosa routine delle loro vite è efficacemente resa attraverso la moltiplicazione dei gesti e dei movimenti sempre uguali che guida il lento ma inesorabile avvicinamento tra Hannah e Max. Racconta la regista: “Hannah è cresciuta parlando una lingua straniera (il tedesco), che però le permette di esprimere i suoi sentimenti più intimi, cosa che non le riesce nella lingua madre (l’austriaco), una lingua che ha utilizzato solo da bambina. Per questo motivo, le conversazioni familiari quotidiane si limitano ad argomenti banali. Anche Max vive in un mondo fatto di linguaggi ritualizzati, soprattutto nella routine lavorativa. La comunicazione si ferma in superficie, impedendo qualunque vera forma di intimità e traducendosi in discorsi e azioni puramente formali. È un mondo la cui preoccupazione primaria è che tutto fili sempre liscio, un mondo rinchiuso in una campana di vetro”.

roseRosemari (Framing Mom) è il quarto lungometraggio della regista, sceneggiatrice e scrittrice norvegese Sara Johnsen (Kissed By Winter, 2005; Upperdog, 2009; All That Matters Is Past, 2011). Nonostante un soggetto spinoso come quello dell’abbandono e della dolorosa ricostruzione delle proprie radici, la pellicola affronta, senza eccedere in risvolti drammatici e con un tocco fresco e leggero, svariate tematiche come amore e sesso, famiglia e adozione, realtà e spettacolarizzazione mediatica. Quello che la regista si propone di mettere in scena, in chiave dramedy, è una ricerca di identità che si fonde con una riflessione sui rapporti umani, biologici e non, con le sfumature e le contraddizioni delle relazioni sentimentali e anche con il ruolo dei media nel riportare a galla verità nascoste. La giornalista Unn Tove (Tuva Novotny) sta per sposarsi, ma ama un altro uomo. Durante la festa del suo matrimonio, angosciata, va alla toilette e trova una neonata abbandonata per terra, con il cordone ombelicale ancora intatto. La storia finirà sui giornali locali, susciterà scalpore e la curiosità morbosa della cittadina norvegese di Hønefoss, ma con il tempo se ne disperderà l’eco. Sedici anni dopo ritroviamo Unn: è separata, ha due figlie e conduce una trasmissione televisiva sulle relazioni, l’amore e il sesso. Una misteriosa ragazza si presenta alla sua porta: è Rosemari (Ruby Dagnall), la piccola che aveva trovato in bagno anni prima. Unn le propone di aiutarla a ritrovare sua madre e a ricostruire le circostanze della sua nascita, ma anche di confezionare con la sua storia una puntata per la sua trasmissione. Le due donne scoprono così la storia dell’amore sfrenato di una giovane coppia, un eccentrico ex pugile, con una passione per l’arte erotica, e una madre che ha tenuto nascosto il segreto più grande della sua vita. L’apparente cinismo di questa operazione è il primo elemento spiazzante del film, cui ne seguiranno altri, tra rivelazioni scomode e colpi di scena. Da quel momento, parte una sorta di road movie dove l’indagine personale si fonde con l’indagine giornalistica. Momenti intensi e toccanti si mescolano a dialoghi brillanti e spassosi, come quelli tra la pudica Unn e la più spregiudicata amica e collega Hilde (Laila Goody), ma alcune scelte di montaggio e qualche passaggio superficiale della sceneggiatura finiscono per creare una distanza con lo spettatore, attenuandone lo spirito di empatia con la protagonista. Quello della Johnsen è un prodotto diseguale che funziona ad intermittenza, con una struttura narrativa che cerca di sviluppare in parallelo i molteplici argomenti ma che, inevitabilmente, finisce per privilegiarne il portato emotivo di alcuni a scapito di altri. Forse, troppa carne al fuoco? Dice la regista: “L’amore ha solo reso tutto più complicato e inquietante, ma in un certo senso anche divertente. Divertente perché cose importanti come essere amati e amare qualcuno, fare sesso e avere dei figli, pur così naturali, generano ancora tante opinioni contrastanti. In Norvegia è in corso un dibattito infinito su come ci si possa amare di più, avere migliori rapporti sessuali, e sull’importanza della biologia. La gente ne parla, ci pensa e legge sull’argomento, e tutta questa comunicazione genera ironia, confusione e tristezza per il genere umano”.

constiLa ricchezza e la varietà di tematiche e di spunti narrativi caratterizza anche la sceneggiatura e la visione registica di The Constitution, undicesimo lungometraggio del cineasta croato Rajko Grlić (Josephine, 2002; Border Post, 2006; Just Between Us, 2010), co-autore dello script insieme all’amico sceneggiatore Ante Tomić. Vincitore del Grand Prix of the Americas come Miglior Film nella competizione internazionale del 40° Montreal World Film Festival, la pellicola era stata originariamente pensata come adattamento cinematografico del libro di Tomić, The Miracle in Viper’s Glen, ma a fronte dell’esiguo finanziamento messo a disposizione dal Croatian Audiovisual Centre, si è optato per una nuova storia a budget più contenuto. L’idea di far ruotare il film intorno al personaggio di un travestito è stata ispirata a Tomić dalla canzone Drag Queens in Limousines della cantautrice statunitense Mary Gauthier. Zagabria. Vjekosalv Kralj (Nebojša Glogovac) è un insegnante di liceo che ha consacrato la sua intera esistenza allo studio della storia e della lingua croata e che abita in un trasandato stabile in compagnia del padre degente, Hrvoje, un ufficiale dell’esercito fascista croato nella Seconda Guerra Mondiale. L’unico svago di Vjeko è passeggiare a notte fonda per le strade vuote della città con il viso truccato e con addosso indumenti femminili nei panni di Katarina. Una notte, un gruppo di giovani estremisti lo aggredisce lasciandolo in strada privo di sensi. In ospedale viene riconosciuto e curato da Maja Samardžić (Ksenija Marinković), un’infermiera che vive nel seminterrato del suo stesso edificio. Dopo averlo aiutato a tornare a casa, Maja si prende cura non solo di lui, ma anche di suo padre, costretto a letto. In cambio, Vjeko accetta di aiutare il marito di Maja, il poliziotto serbo Ante Samardžić (Dejan Acimovic), a preparare un esame sulla costituzione croata. La denuncia del pregiudizio razziale e di genere e delle secolari diatribe territoriali, sfociate nella sanguinosa guerra e nella disgregazione della Jugoslavia negli anni Novanta, è condotta attraverso una lucida e sferzante satira che stempera la crudezza della questione omofoba nei toni di un’intelligente e vivace commedia che si serve volontariamente di cliché e categorie tipizzate per dissacrarne le strutture mentali e smascherarne la stupidità sotto i colpi di una risata. Al professore croato colto e serioso che, per difendere il suo alter ego femminile e la sua vulnerabilità, si trincera dietro una scorza cinica e sgarbata fa da contraltare l’agente di polizia serbo sempliciotto, ignorante ed ubriacone che, tuttavia, è capace di adempiere con zelo al suo lavoro e di proteggere con amore la moglie e la propria cagnolina. Nello sgangherato e fatiscente condominio – una sorta di metafora socio-politica dei paesi nati dalle ceneri della Jugoslavia – si intrecciano irrisolti scontri generazionali, accesi dibattiti etnici, intime confidenze, focosi slanci sessuali e delicati abbandoni alle proprie pulsioni gender. L’apparente ricomposizione finale delle tensioni lascia comunque il posto alla consapevolezza – resa con la stravagante e riuscitissima trovata dello psicopatico (chi può dire che lo sia davvero?) che si diverte a tormentare i cani con pezzi di salsiccia cosparsi di schegge di vetro – che idiozia umana e terrorismo socio-culturale sono sempre dietro l’angolo. Funziona alla perfezione il cast, con uno straordinario Nebojša Glogovac (famoso soprattutto per aver interpretato il generale jugoslavo cetnici Draža Mihailović nella serie televisiva serba Ravna Gora, trasmessa dal 2013) nella duplice veste di Vjeko e Katarina e con gli esilaranti siparietti tra Dejan Acimovic e Ksenija Marinković. Racconta il regista: “Nella nostra storia, ciò che accomuna i personaggi non è solo lo spazio in cui vivono, ma anche i demoni del loro passato, che spesso si fronteggiano l’un l’altro; demoni che li costringono a vivere in quel passato anziché nel presente. So che raccontare una storia di questo tipo non è affatto facile. So anche che deve essere raccontata in modo diretto e, talvolta, persino duro. Ma il mio intento è semplice: voglio parlare di persone vive e non di idee morte. E per questo non intendo rappresentare sotto forma di “tragedia” questa storia e i suoi protagonisti. Al contrario, voglio parlare di quelle “cose difficili” con un’ombra di sorriso sulle labbra, con un calore e un amore che si possono provare persino per il personaggio più negativo. Solo così potrò arrivare a coloro che la pensano diversamente e vedono le cose in modo diverso, quelli che odiano a priori e che sono certi che tale odio sia giusto”.

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