FEFF22 – Detention, Victim(s), Impetigore, Beasts Clawing at Straws

Dalla selezione ufficiale del Far East Film Festival, l’horror politico di Detention, quello classico ancestrale di Impetigore, Victim(s) del bullismo, e il sexy crime di Beasts Clawing at Straws

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Detention (Reclusione) di John HSU entra in un liceo d’epoca per raccontare un periodo molto buio della storia di Taiwan, il Terrore Bianco, una feroce repressione politica ad opera del Kuomintang di Chiang Kai-shek (detto anche Generalissimo Chiang). Siamo nel 1962. Nel film predomina un senso di asfissia, sogno, incubo, passato e presente cominciano a confondersi in un gioco di riflessi dove la paura deforma le schegge dello stesso specchio. Il conflitto nasce dalla proibizione, il divieto cade in un perimetro noto per il cinema, con la scoperta all’interno dell’istituto del Club dei libri, rigurgito nazista/totalitario e pretesto di tortura, un argomento illustrato definitivamente da Ray Bradbury e François Truffaut in Fahrenheit 451.

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Invece di procedere seguendo un filo logico, la narrazione cerca dei continui salti di suspense, e l’ingresso in un mondo diventato ostile nella sua parte terrena comporta incontrare i fantasmi nati da un persistente stato di angoscia. L’argine viene superato con l’ausilio di un sound design minimale ed ininterrotto, e l’animo tormentato dei detenuti, le loro sofferenze, le grida di dolore, diventano la pietra angolare per avvicinarsi alla piaga. Quelle richieste di aiuto viaggiano nel tempo ed arrivano ai giorni nostri, voce unica di un popolo impegnato a difendere la propria identità, ora come allora, dalle mire aggressive della Cina. Gli stessi personaggi vivono in una progressione collettiva, trovano una dimensione solo in riferimento ad un comune destino. Ancora una volta l’horror si rivela terreno privilegiato per avanzare un discorso politico. Lo stile metaforico e stilistico guarda naturalmente vicino all’uscio di casa, paesi pieni di leggende di spiriti inquieti e vaganti, simboli di memoria e vendetta, ed il ghost movie conseguenza ideale per illuminare luoghi ancora circondati dal buio.

Se gli adolescenti di Detention sono la testimonianza di un ricordo incancellabile, quelli di Victim(s) di Layla Ji sono il risultato di un fenomeno in continua espansione, un orrore di altro tipo, il bullismo. Questo campus della Malesia introduce una realtà di violenza molto diffusa e sottostimata, resa incontrollabile da una sovraesposizione mediatica invasiva. Ispirato ad una storia vera, prende spunto da un fatto di cronaca. Tre liceali vengono aggrediti in strada, uno ci resta secco. L’aggressore risulta essere un altro ragazzo della stessa scuola. Il tempo cronologico in questo caso viene piegato all’indietro, ai momenti di rottura prima del crollo emotivo, vessazione, percosse, stupri, prepotenze, un intero campionario di comportamenti malvagi, in un clima reso insensibile dall’omertà. Una società anestetizzata pronta soltanto a chiedere la testa di un colpevole da additare per la condanna pubblica.

Sul tema cardine gira anche il discorso della lotta di classe, l’occasione per mettere a confronto modelli contigui, con indici di consumo diversi ma una medesima miseria affettiva. L’analisi classista trova un limite nel contesto ambientale facendolo apparire una giustificazione, quasi l’estrazione sociale fosse una condanna preventiva al disordine morale. La descrizione invece è perfetta nell’esplorare le fragilità giovanili, la vergogna, il timore di un pubblico ludibrio, la sessualità incerta, il senso di inadeguatezza fisica o economica. Un abisso. Le cui maglie travalicano l’aspetto generazionale ed esasperano un pessimismo probabilmente eccessivo, poco attenuato dal finale. Il vuoto risucchia senza riguardi per l’età anagrafica, aprendo un’altra voragine nel campo educativo privo di spessore. Resta interessante ed attuale il ragionare sulla perdita di una sfera privata, dei processi sommari, del pressapochismo dei mezzi di informazione interessati solo a sbattere il mostro in prima pagina, lontani anni luce da elementi come attendibilità e prudenza da considerare un faro per orientare il proprio lavoro. La presenza fastidiosa dell’informazione mainstream diventa vera e propria occupazione visiva dello schermo. E le uscite del tribunale, gli ospedali, le abitazioni private, presidi di appostamento per un ultimo inutile scoop.

Un altro horror inserito nella competizione ufficiale è l’indonesiano Impetigore diretto da Joko Anwar, dove la protagonista Maya torna al suo villaggio natale per fare i conti con una maledizione. Insieme a lei viaggia l’inseparabile amica Dini. Gli spazi urbani spariscono per lasciare il posto alla campagna, e il cambio di passo prevede l’arrivo in una vecchia casa di famiglia, considerata come l’epicentro di un terribile morbo. L’estinzione del maleficio comporta versamenti di sangue, meglio se attraverso l’uso di lame, per sgozzare o scuoiare. Il plot è un classico: l’estranea arriva in paese portando scompiglio ed attirandosi addosso le ire degli abitanti, in questo caso una vera e propria persecuzione assassina. La lotta eterna contro il pregiudizio e l’ignoranza.

La soluzione anche qui è remota e invisibile, vive di sussurri demoniaci ed apparizioni, vittime mai dimenticate rimaste intrappolate per l’eternità dentro un gioco diabolico, ridotte ad essere una marionetta per il Wayang Kulit, il tradizionale teatro di ombre giavanesi. La scoperta di Maya delle origini fornisce il quadro d’insieme della storia, ancora un processo a ritroso, stavolta delle visioni, ed al contempo illustra il suo approccio con una realtà aliena. Il gusto e le location esotiche lasciano intatti i riferimenti alla tragedia di origine europea, soprattutto nel finale.

Beasts Clawing at Straws (Bestie che si attaccano a tutto) del sudcoreano KIM Young-hoon è un thriller pieno di indizi lasciati per ricostruire pezzi del puzzle. Lo sguardo sull’umanità resta poco lusinghiero. L’intreccio crime segue la pista di una borsa Vuitton piena di denaro sporco, trovata da un ignaro (con le debite distanze, un sistema non molto dissimile dal meccanismo bressoniano utilizzato per L’argent, da un racconto di Tolstoj, Denaro Falso). I soldi influenzano le esistenze dei quattro protagonisti, convinti dal loro possesso di guadagnare una nuova possibilità dalla vita. Vuoi a causa di un indebitamento, vuoi per una retta scolastica da saldare o per liberarsi dall’indigenza e scappare da un marito violento, il prezzo da pagare non cambia e si differenzia soltanto per grado morale. Quale che sia la motivazione lascia zero alternative di successo. I toni sono di un grottesco quasi involontario, soprattutto quando il dramma assume i connotati ridicoli della commedia. La lettura dei personaggi resta abbozzata in grandi linee come perfetti stereotipi, maschere inconsistenti sprovviste di valori e incapaci di sognare. Il ritmo è incalzante: tradimenti, passioni, pazzia, delitti, ricatti, estorsioni, una lunga lista di avvenimenti in rapida successione ed una scia di sangue sempre più lunga.

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