FESTIVAL DI ROMA 2012 – L'attore che voleva fare l'artista – Masterclass con James Franco

James Franco sul Red Carpet

L'attesa per l'incontro doppio con James Franco e Douglas Gordon è tanta. Davanti al Teatro Studio, una lunga fila si dipana già da un'ora prima dell'inizio dell'evento. C'è anche qualcuno dell'organizzazione che dà poche speranze agli accreditati, annunciando il tutto esaurito. E alla fine si riesce a entrare. In ritardo sulla tabella di marcia, James Franco arriva scortato da Marco Müller stesso.

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James Franco sul Red CarpetL'attesa per l'incontro doppio con James Franco e Douglas Gordon è tanta. Davanti al Teatro Studio (paradossalmente lo spazio più piccolo che l'Auditorium può offrire), una lunga fila si dipana già da un'ora prima dell'inizio dell'evento. C'è anche qualcuno dell'organizzazione che dà poche speranze agli accreditati, annunciando il tutto esaurito. E alla fine si riesce a entrare. In ritardo sulla tabella di marcia, James Franco arriva scortato da Marco Müller stesso, che si scusa per l'attesa, giustificata dal bagno di folla al quale Franco si è dovuto sottoporre sul Red Carpet, e che annuncia che Gordon è stato costretto a dare forfait all'ultimo minuto, causa di forza maggiore (l'artista è impegnato con la Giuria di CinemaXXI, in riunione per deliberare sui vincitori del concorso). A moderare l'incontro, Alessandra Mammì, esperta di cinema e di arte, argomento su cui verte l'incontro. Ma prima che l'ora assolo di Franco possa iniziare, all'attore viene consegnato il Premio Cubovision “per il suo talento poliedrico e mai banale”. Franco è “una promessa mantenuta e mai delusa del cinema mondiale”.

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James Franco, lei è attore, cineasta, artista, curatore, amico e vittima di artisti. Ha anche realizzato un'intervista a Marina Abramovic per il Wall Stree Journal. Quanto in questa sua attività poliedrica ha contribuito essere nato in California, luogo vicino a Hollywood?

Franco: In realtà sono nato a Palo Alto, vicino San Francisco, dove viveva anche lo scomparso Steve Jobs. Andavo a scuola con sua figlia. Hollywood era ben lontana, siamo nella Silicon Valley e là l'attività più importante è l'informatica. Vi hanno sede la Apple, Google e tante altre. Mi sono interessato al teatro a San Francisco, ma non è una vera e propria industria come Hollywood, che a me sembrava così lontana. Ero fan di attori come James Dean o anche contemporanei come River Phoenix e tanti altri che recitavano da giovanissimi e io, che avevo già 15 o 16 anni, pensavo di essere troppo vecchio al confronto. Poi a 18 anni mi sono iscritto alla UCLA. I miei interessi erano tre: la letteratura inglese, la recitazione e, in generale, filmmaking, e l'arte. A Los Angeles c'è un'importante scuola di design dove hanno studiato tanti artisti. E io avrei voluto andare alla scuola d'arte, ma i miei genitori, nonostante si fossero incontrati proprio a un corso d'arte, erano contrari. Non mi avrebbero supportato. Mio padre voleva che facessi matematica perché nel frattempo aveva lasciato l'arte per darsi alla matematica. Alla fine, ho scelto di fare letteratura inglese. Ma ero a Los Angeles e tutti intorno a me erano coinvolti nel mondo del cinema, in un modo o nell'altro. Divenne per me una possibilità. Dopo un anno alla UCLA, ho deciso di abbandonare l'università e di iscrivermi a una scuola di recitazione, lavorando al McDonald's. Dopo circa tre mesi, ho fatto una pubblicità per Pizza Hut e da lì sono diventato attore. Non mi sono mai fermato per otto anni e non ho mai fatto altri lavori. Poi 5-6 anni fa, ho ripreso a studiare per conto mio ed è allora che ho voluto fare altro in modo serio. Amo la recitazione, lavoro con gente fantastica, ma ora lo considero il mio “day job”. Il resto è la mia vera passione.

 

James Franco alla presentazione di Lei ha realizzato in qualità di curatore con vari artisti, tra cui Gordon, Rebel, un'opera ispirata a Gioventù bruciata di Ray. Ci può dire come le è venuta l'idea e come avete lavorato?

Franco: Rebel è un progetto importante per molte ragioni. Anni fa ho interpretato James Dean in un film TV di Mark Rydell. Una bella esperienza, ma era un biopic molto tradizionale. 10 anni dopo ero ancora interessato a Rebel Without a Cause come film che davvero rappresenta cos'è Hollywood e la recitazione, che è al centro di tante cose che hanno a che fare con il filmmaking e volevo fare di più. Non sapevo cosa però. Allora Paul McCarthry e Douglas mi hanno insegnato che film, Tv e video rappresentano una gran parte della nostra vita, metà del mondo è fatto di immagini ed è parte della nostra identità. Potevo guardare al film come materiale grezzo che ha generato così tanto dopo, come Gordon ha fatto con Psycho. C'erano ancora parti dell'originale, ma anche parti nuove che davano nuovo significato al film. Quella era l'idea e abbiamo deciso di collaborare con gente dal mondo dell'arte come Paul e Damon McCarthy, Aaron Young, Harmony Korine, Ed Ruscha, Terry Richardson e Douglas Gordon. Ho lavorato su una sezione del film con ognuno. L'originale è stato così frazionato e traformato in diversi tipi di performance. Un progetto multidimensionale che abbiamo portato via dallo schermo, usando come spazio lo Chateau Marmont, l'hotel dove Ray alloggiava durante la realizzazione del film.

 

Mi sembra che la differenza principale tra le ricerche d'avanguardia sia che l'avanguardia del Novecento abbia avuto a che fare con l'arte nello spazio, mentre oggi l'avanguardia si concentra sulla cattura del tempo, la potenzialità narrativa e l'immaginario cinematografico. Un cambiamento epocale…

Franco: C'è molta enfasi sulla narrativa oggi. Per me, è interessante il lavoro ispirato al cinema mainstream e poi messo nel mondo dell'arte oppure quando artisti vogliono fare film. A me interessa andare nella direzione opposta: usare il film come medium, ma rompere la narrazione. Ci sono diversi modi di costruire il film, molti legati al tempo, ma non così tanto alla narrazione.

Di recente ha visitato al MoMa Marina Abramovic durante il suo The Artist Is Present, una performance durante la quale è stata lì per tre mesi, fissando le persone negli occhi. Cosa le è rimasto di questa esperienza?

Franco: Diciamo che non ero in fila come gli altri. Marina è un'amica e anche il curatore, che voleva andassi. È stata un'esperienza interessante. La performance ha galvanizzato la gente a New York come una premiere al giorno o come se dovessero incontrare un leader spirituale. Marina era al centro della galleria, con due sedie e ti potevi sedere di fronte a lei e rimanere quanto volevi mentre tutti guardavano e le camere proiettavano il tutto su internet live. È come una performance minimale. Poiché stavamo lì a guardarci era una cosa familiare per me, mi ricordava gli incontri di meditazione a cui mi portava mio padre. Era una cosa privata, ma anche strana per la gente che ti guardava. Credo che Marina abbia dato una possibilità alla gente per esprimersi e poi lei stessa mi ha detto “Ho visto così tanto dolore nei loro occhi” quando l'ho intervistata.

James FrancoQual è la differenza più evidente tra arte e cinema?

Franco: Il contesto, credo, il modo in cui l'audience interagisce. Cambiano le aspettative del pubblico, il modo di guardare all'opera. È diverso anche il modo in cui l'opera viene venduta. Al cinema, si vendono unità mentre gli artisti fanno un numero limitato di opere e si possono focalizzare senza la pressione di dover vendere molte unità.


Secondo lei, come si potrebbe aumentare la consapevolezza del pubblico verso l'arte?

Franco: Il cinema è stato per cento anni un'arte popolare. Ora videogames, internet e TV competono con esso, ma è sempre stato pop. L'arte e la poesia, invece, hanno un'audience più piccola ed è quando prendi un medium che scegli il tuo pubblico. Mi piacerebbe che le arti fossero viste il più possibile, ma non è possibile perché non sono così popolari come il cinema.
 

In che modo il suo background artistico la aiuta quando si prepara per un ruolo?

Franco: Se è un ruolo in un film, che è un medium collaborativo, allora devo credere al progetto. Poi mi accerto che il modo in cui sto sviluppando il personaggio sia in linea con ciò che vuole il regista. Credo che ci siano due livelli di ricerca quando ci si prepara: capire chi è il personaggio come persona e poi capire in che modo si inserisce nella storia del film. Per esempio, in Milk interpretavo Scott Smith, il compagno di Milk. Era un personaggio reale e ho incontrato i suoi amici, letto libri, interviste, fatto ricerche sul campo, etc. Ma poi sapevo che il film si chiamava Milk e non Smith, quindi non potevo interpretarlo come fosse il protagonista. Il mio ruolo era mostrare come Harvey bilanciava la vita lavorativa e quella privata. Smith aveva un suo lavoro, un suo dramma, ma non era quello il mio ruolo e sarebbe stato dannoso per il film e per la mia interpretazione. Applicherei sempre questo approccio a qualsiasi tipo di performance e medium.

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